Tassare i robot per tutelare i lavoratori. Dubbi sulla fantascienza fiscale

Dario Stevanato
La mozione presentata al Parlamento europeo suggerisce di imporre alle imprese che impiegano macchine intelligenti un reporting finalizzato a determinare il contributo fornito dagli androidi al risultato economico.

Androidi e robot potrebbero in un prossimo futuro trovarsi a sognare pecore elettriche, ma a pagare tributi reali come tocca a noi umani. E’ questo il senso della recente mozione al Parlamento europeo presentata dall’eurodeputata lussemburghese Mady Delvaux.  Nell’ambito di un testo centrato soprattutto sulla delicata questione della responsabilità civile per danni provocati da macchine pensanti in grado di agire in modo autonomo e impredittibile, fuori da ogni possibilità di controllo di produttori, proprietari o utilizzatori delle stesse, la mozione prefigura uno scenario in cui la sostituzione di robot intelligenti a lavoratori in carne e ossa produrrà una disoccupazione permanente e di massa, ponendosi il problema della sostenibilità degli odierni sistemi di sicurezza sociale, da risolvere attraverso una modifica degli attuali criteri di tassazione.

 

La mozione suggerisce infatti di imporre alle imprese che impiegano robot, anziché lavoratori, un reporting finalizzato a determinare il contributo fornito dalle macchine intelligenti al risultato economico, onde tassarlo e assoggettarlo alla contribuzione sociale: e ciò in corrispondenza a un reddito di base o cittadinanza, con carattere universale, da attribuire ai lavoratori espulsi dal ciclo produttivo o mai entrativi. Si realizzerebbe in tal modo, per la prima volta su così larga scala, una inedita dissociazione tra “redditi” e “consumi”, giacché i secondi sarebbero effettuati senza che vi siano i primi. Il concetto di reddito, nell’accezione che appare da preferire, postula infatti lo svolgimento di un’attività, lo sfruttamento di un capitale, e così via, a fronte del quale si riceve una remunerazione. Il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (universal basic income) non è invece in senso tecnico un “reddito”, bensì un sussidio, finanziato dal prelievo fiscale su redditi altrui.  

 

La proposta di risoluzione potrebbe in astratto trovare giustificazione in due referenti teorici, tra loro non alternativi. Da un lato la “discriminazione qualitativa dei redditi”, che postula una maggiore tassazione per quelli fondati sul capitale o frutto di rendite di posizione (le “macchine intelligenti” consentirebbero risparmi di spesa e maggiore efficienza rispetto all’impiego di capitale umano). Dall’altro un utilizzo extrafiscale dell’imposta, per correggere le esternalità negative di specifiche attività produttive, come accade per quelle inquinanti o che, come in questo caso, producono alterazioni negli equilibri sociali e nella sostenibilità dei modelli di welfare. Al tempo stesso, un aggravio di tassazione sulle imprese che impiegano tecnologie e innovano i processi produttivi scoraggerebbe l’utilizzo di macchine intelligenti, rendendo relativamente più conveniente l’impiego di lavoratori salariati: e su questo intendimento di frenare innovazione e  progresso tecnologico non si può che nutrire forti perplessità.

 

La raccomandazione citata è peraltro in stridente contrasto con le attuali legislazioni degli stati membri, compresa l’Italia, sul “Patent box”, con cui si agevolano fiscalmente i proventi connessi allo sfruttamento di brevetti, know how, e tecnologia in genere, il cui sviluppo presuppone attività di studio e ricerca con ricadute fino a oggi ritenute desiderabili per la collettività.
Resta poi tutta da verificare la possibilità di sceverare dai profitti d’impresa la quota imputabile all’uso della robotica, da tassare in modo maggiorato, se non impiegando criteri presuntivi e indici esteriori, con cui si tornerebbe curiosamente all’antico, alle imposte di patente incentrate sul numero dei macchinari produttivi. A oggi, e per restare in tema, siamo forse ancora nell’ambito della “fantascienza fiscale”.

 

Questo genere letterario si addice a un ulteriore spunto di riflessione sollecitato dalla mozione citata, che propone di attribuire ai robot una personalità legale, considerandoli delle “persone elettroniche”, soggetti di diritto e possibili titolari di un patrimonio autonomo e destinato, alimentato da contributi di produttori, liberalità, e corrispettivi per i servizi prestati dalla stessa “macchina intelligente”: il fondo patrimoniale, funzionale all’attivazione di una responsabilità civile per i danni prodotti ai terzi, potrebbe essere il primo passo per “tassare i robot”, dato che gli stessi disporrebbero di risorse con cui assolvere autonomamente gli obblighi tributari. E’ davvero questo il futuro che li (e ci) aspetta?


Dario Stevanato è professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste

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