L'ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda con il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il ministro dello Sviluppo

A noi e all'Europa serve una cura di realismo e mercato. Parla Calenda

Marco Valerio Lo Prete

Il “ruolo sociale” delle banche, il bail-in da difendere ma ora da interpretare, la globalizzazione da cavalcare (vedi Ttip). Ddl Concorrenza? Entro l’estate. Poi la legge di Stabilità con in cima gli investimenti. Ecco come.

Roma. “Dalle banche alle liberalizzazioni e al commercio: all’Unione europea come all’Italia serve una cura a base di competitività e investimenti, oltre che di sicurezza”, dice Carlo Calenda in una conversazione con il Foglio. Ministro dello Sviluppo a tempo pieno, non è un mistero però che Calenda – specie in un momento di trattative serrate con Bruxelles sul dossier banche – sia considerato un atout a Palazzo Chigi per la sua vicinanza al mondo dell’impresa (vedi il suo passato in Confindustria) e soprattutto per la sua acquisita dimestichezza con gli ambienti europei (vedi la sua breve e intensa esperienza come ambasciatore “politico” di Matteo Renzi presso l’Ue).

 

Nel suo lavorio a cavallo tra Via Veneto e Bruxelles, Calenda si è convinto che “battersi in tutte le sedi per una maggiore ‘competitività’ è decisamente meglio che sbracciarsi per una generica e spesso vuota richiesta di ‘flessibilità’”. Eppure, anche sulle banche, la parola d’ordine del governo pare essere la seconda, non trova? “No, l’esecutivo sta trattando con Bruxelles per ottenere spazi di manovra che sono tutti contemplati dalle regole europee, incluse quelle del bail-in”. Il bail-in non è anti costituzionale, anzi: “Il principio del bail-in in sé è sacrosanto, cioè l’idea che a tamponare le crisi delle banche siano in primo luogo gli investitori e gli obbligazionisti che si sono assunti un rischio, non i contribuenti. Dopodiché, se le banche sono in difficoltà in ragione di una crisi prolungata dell’economia reale e non per chissà quale investimento folle in derivati, allora ecco che un po’ di realismo è necessario. Inoltre, se fronteggiamo un rischio sistemico in potenza, le stesse regole prevedono meccanismi per evitare che burden sharing e bail-in aggravino la crisi”. Il ministro dice che oltre al confronto diplomatico, sul dossier banche è necessaria un’operazione verità di fronte all’opinione pubblica, “perché è ridicolo che alcuni in questo paese si oppongano allo stesso tempo al bail-out, cioè al salvataggio con i soldi pubblici considerato ‘un regalo ai banchieri’, e anche al bail-in che sarebbe ‘un furto ai danni dei risparmiatori’. Si può dire chiaramente che la banca ha un ruolo sociale importante di custode dei nostri risparmi e di motore della crescita?”. Si può dire, ovvio, è la risposta alla domanda retorica. Domanda non retorica, invece: la convince la linea di rispondere alle difficoltà italiane criticando lo stato di salute delle banche di altri paesi europei? “No – è la prima risposta – Ma dire che c’è una sproporzione tra il peso attribuito alle sofferenze che originano da crediti erogati e quello attribuito ai derivati mi sembra un giusto rilievo”. 

 


Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (foto LaPresse)


 

Il governo Renzi, dopo il referendum sulla Brexit, è sembrato trovarsi subito in minoranza nel tentativo di concludere il Ttip, l’accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti: “Siamo l’unico paese che ha formalmente chiesto alla Commissione europea di approvare l’accordo di libero scambio con il processo previsto per i trattati di competenza dell’Ue: voto del Consiglio e del Parlamento europeo. Purtroppo ha prevalso la linea un po’ schizofrenica di quanti chiedono ‘più Europa’ e poi alla prima occasione utile impediscono a Commissione e Parlamento europeo di procedere autonomamente”. Sul Foglio abbiamo lanciato un’idea pazza: lei con Renzi e Sergio Marchionne si potrebbe recare alla Casa Bianca per dire che noi un’intesa, foss’anche bilaterale, la vogliamo lo stesso: “Non si può fare, purtroppo. E sa qual è il rischio concreto? Che ora il Regno Unito, una volta finito il processo di uscita dall’Ue, stringa un accordo di libero scambio con l’America prima di noi. Stiamo rinunciando a un’importante leva di crescita che riporterebbe nelle mani dell’occidente il timone della globalizzazione”.

 

Calenda dice che la battuta d’arresto sul Ttip, cui non sono estranei partiti cugini del Pd italiano, “come i socialisti francesi e la socialdemocrazia tedesca”, rientra “in una più generale crisi di fiducia non soltanto tra stati, come è stato a partire dal 2011, ma tra cittadini, classe media e classe dirigente”. Oggetto del contendere: gli sviluppi inattesi della globalizzazione e la sensazione di “essere stati traditi anche da una retorica europeistica troppo semplicistica”. Dunque, che fare? Replica il ministro: “Alcuni governi e movimenti politici europei hanno scelto di inseguire e basta una duplice e comprensibile paura. Da una parte quella di alcuni di essere marginalizzati e indifesi nel confronto internazionale, dall’altra una più profonda difficoltà culturale nel rapportarsi a cambiamenti rapidissimi anche della tecnologia. Il governo Renzi sta tentando una strada totalmente diversa: comprendere, spiegare e decidere”. Dove “decidere” è fondamentale per essere alternativi a un fenomeno che Calenda ritiene “la versione italiana del populismo, cioè la fuga dalla realtà”. Sulle banche, si è detto, fuggono dalla realtà coloro che non vogliono il bail-out ma nemmeno il bail-in. Sulla globalizzazione quelli che parlano solo delle imprese entrate in crisi per la concorrenza internazionale e non riconoscono che dal 2001, anno d’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, “il nostro paese ha fatto segnare anche 150 miliardi di euro in più di esportazioni, mentre uscivano dalla povertà un miliardo di persone in tutto il mondo”. “Il governo non deve catechizzare nessuno. Deve avere piuttosto la capacità di ascoltare e poi spiegare le proprie scelte. Governare vuol dire scegliere, e le scelte hanno conseguenze positive per alcuni e negative per altri. Spiegarlo in modo trasparente aumenta l’autorevolezza dell’azione pubblica”.

 

Tutto bene in teoria. Tuttavia, calandoci nel contesto nazionale, le resistenze degli “scontenti” hanno affossato il ddl Concorrenza: “Quelle norme non sono coraggiose come avrebbero dovuto essere, ma entro l’estate saranno approvate. Almeno avremo rispettato per la prima volta l’impegno di un ddl a cadenza annuale”. Entro il mese di luglio il ministro garantisce di chiudere anche “la riforma del Fondo di garanzia per le imprese al fine di favorire le attività di investimento delle pmi rispetto al capitale circolante. Basta un decreto ministeriale”. Poi l’appuntamento con la legge Finanziaria: “Insieme al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e al sottosegretario Tommaso Nannicini stiamo lavorando all’impianto portante della legge di Stabilità, una sorta di piano industriale per la crescita”. Non è la solita politica industriale, assicura, è un metodo: “Più investimenti, certo, ma pubblici e privati. Iniziando da un’operazione di rendicontazione degli incentivi e dei crediti fiscali per le imprese già in essere. Ci stiamo lavorando in questi giorni, anche grazie a Enrico Bondi, a settembre renderemo noti i risultati al pubblico. Dopodiché selezioneremo e sceglieremo soltanto poche misure su cui concentrare tutte le risorse”. Sempre a favore d’investimento, Calenda immagina “la predisposizione di un iper ammortamento per i beni digitali al servizio della manifattura, visto che il super ammortamento per i beni materiali ha funzionato egregiamente”.  

 


Carlo Calenda con il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (foto LaPresse)


 

 

Niente fughe dalla realtà sul referendum

 

Quella del prossimo autunno potrebbe essere l’ultima Finanziaria di questo governo, se il referendum costituzionale andasse male. Ci aveva pensato? “Del futuro politico mio, che politico non sono mai stato, o di Renzi, mi interessa poco. Anche qui, come quando difendiamo mercato e realismo, giocheremo all’attacco. Però mi lasci dire che quella sul referendum è una battaglia politica alta: sono trent’anni che parliamo della necessità di superare il bicameralismo e di correggere il federalismo per lasciar correre la società e l’economia, senza mai venirne a capo. Qualunque sia il rischio, personalmente ritengo che valga la pena correrlo”. Pena, un’ennesima fuga dalla realtà.