Non solo economia. Diritto ed etica dietro il "no" svizzero al reddito di cittadinanza

Rocco Todero
Perché mai un uomo o una donna adulti dovrebbero pretendere un reddito minimo garantito e non dovrebbero invece adoperarsi per esercitare un’attività di qualsiasi genere da cui trarre beni e servizi da scambiare con altri lavoratori e produttori per ottenere quanto è necessario al loro sostentamento?

    Domenica 5 giugno, mentre i siti on line dei principali quotidiani nazionali italiani annunciavano la vittoria del “no” in Svizzera al referendum per l’introduzione del reddito di cittadinanza, mi chiedevo perché mai un uomo o una donna adulti, normodotati, abili al lavoro e forniti di una qualche istruzione, dovrebbero pretendere un reddito minimo garantito (frutto del lavoro dei loro concittadini) e non dovrebbero invece adoperarsi per esercitare un’attività di qualsiasi genere da cui trarre beni e servizi da scambiare con altri lavoratori e produttori per ottenere quanto è necessario al loro sostentamento. Non so dire naturalmente quanti elettori in Svizzera si siano posti lo stesso interrogativo prima di rispondere nella solitudine dell’urna al quesito referendario, ma non credo che la domanda possa essere elusa facilmente a tutto vantaggio di considerazioni sul tema d’altra natura come quelle che si preoccupano esclusivamente di verificare la compatibilità con i vincoli di bilancio pubblico dell’introduzione del reddito di cittadinanza o la sua migliore efficienza economica rispetto alla non indifferente generosità del nostro welfare state.

     

    Su questo blog Marco Valerio Lo Prete ha già specificato la differenza che sussiste fra il reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito ed il salario minimo chiarendo che con il primo di questi sussidi “si intende normalmente una forma di reddito garantito universale e assoluto, erogato dallo Stato a prescindere dalla situazione di bisogno delle persone”. Sarebbe opportuno, allora, considerare che il reddito di cittadinanza assumerebbe le sembianze di un vero e proprio diritto soggettivo pubblico azionabile nei confronti dello Stato a prescindere dal contributo che ciascun cittadino dovesse decidere di fornire allo sviluppo della società all’interno della quale vive ed anche per l’ipotesi di volontaria e duratura inattività lavorativa. Da dove tragga fondamento questo diritto di stare al mondo sulle spalle altrui, anche quando si possiedono le capacità per arrangiarsi da soli, non è dato sapere, né è mai stata spiegata quale  recondita ragione radicherebbe l’obbligo per alcuni di lavorare per sé e per tutti quelli che pur potendolo fare non ne avrebbero tanta voglia.

     

    Il contratto sociale sarà pure un mero artificio narrativo utile alla teoria del liberalismo per spiegare le ragioni della limitazione del potere e non utilizzabile per la reale rappresentazione di quanto è in verità accaduto nei momenti fondativi delle nostre società, se mai di questi momenti ve ne siano  veramente stati. Ciò, tuttavia, non autorizza a negare l’irragionevolezza e l’assurdità di un patto sociale il cui fondamento consisterebbe anche nel diritto di ciascuno di rendersi volontariamente nullafacente e di vantare nei confronti degli altri la pretesa di essere più che soddisfatto persino oltre il limiti dei propri fabbisogni vitali, come è stato ipotizzato in Svizzera. Anche a volere utilizzare l’esperimento teorico del velo d’ignoranza, ripreso da John Rawls nel suo "A Theory of Justice", risulterebbe difficile pensare che i cittadini (per quanto privi di un certo numero di informazioni relative alla propria condizione futura nella società) sceglierebbero la regola costituzionale che prevede il dovere di farsi carico anche di chi decidesse di non impegnarsi in alcuna attività lavorativa perché garantito dall’intervento immediato di un reddito di cittadinanza.

     

    La questione è dunque giuridica e costituzionale ancor prima che economica, ed è subito dopo, se non allo stesso momento, etica e morale. Essa attiene alle ragioni del nostro stare insieme all’interno di ordinamenti giuridici statali il cui ruolo fondamentale è semplicemente quello di rendere compatibile il reciproco esercizio delle libertà individuali di milioni di cittadini e non già quello di assegnare ad alcuni il ruolo di sudditi e ad altri quello di rentiers della cittadinanza. La ricchezza e il benessere non crescono spontaneamente sulle piante (almeno non nella misura in cui servono a soddisfare i bisogni di milioni di persone) e nessuno dei soggetti abili a fornire un contributo alla loro produzione può essere escluso a priori dal dovere di badare a se stesso e di contribuire allo sviluppo generale della società. Nemmeno la nostra Costituzione repubblicana che tanti cedimenti alla strumentalizzazione della solidarietà ha consentito nel corso di circa 70 anni si è mai spinta oltre un certo limite, tanto è vero che ha previsto all’articolo 4 il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Altro che reddito ci cittadinanza.