Mario Draghi (foto LaPresse)

Draghi smonta la favola: gli immigrati non curano la piaga demografica

Alberto Brambilla
La crescita può arrivare solo dall'aumento della produttività, ha detto il presidente della Bce

Roma. “Neppure la più alta immigrazione attesa sarà probabilmente in grado di compensare il declino naturale della popolazione della zona euro”. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, parlando ieri davanti alla platea di banchieri e uomini d’affari del Brussels Economic Forum della Commissione europea ha così respinto la vulgata secondo la quale un aumento della popolazione extra-europea può da sola contrastare l’endemico declino demografico continentale. “Le politiche pubbliche – ha detto Draghi – possono certamente temperare tali effetti accogliendo e integrando gli immigrati ma dal momento che non possono fare molto per intervenire nei trend demografici, ne consegue che aumentare la crescita nel lungo termine richiede un aumento della produttività”. Draghi dunque sostiene che l’immigrazione di per sé non può risolvere il problema e offre una visione differente da quella proposta in passato dal suo vice, Vítor Constâncio. Il vicepresidente della Bce, un ex politico socialista portoghese, aveva detto che per sopperire alla mancanza di nascite (“un suicidio demografico”) c’è bisogno di immigrati.

 

Tuttavia l’apporto di nuova popolazione non può essere una panacea, come ha avvertito l’Economist ridimensionando i propositi buonisti tedeschi in fatto di accoglienza dei rifugiati. Secondo gli ultimi calcoli del demografo dell’Università di Milano-Bicocca Gian Carlo Blangiardo, in uno scenario che contempla l’assenza di migrazioni la popolazione dell’Unione europea a 28 membri calerebbe tra il 2015 e il 2050 di 40 milioni di abitanti, da 507 a 466. La forza lavoro (la popolazione in età 20-64) calerebbe di 70 milioni, da 306 a 233. Le stime, ripetiamo, si basano sullo scenario di assenza di immigrazione. E’ dunque chiaro che recuperare un “gap” di 70 milioni di persone prodotto in 35 anni significa avere un apporto netto regolare di popolazione di 2 milioni ogni anno in aggiunta a quella esistente. Un numero enorme. E’ perciò improprio ritenere che il declino demografico inerziale d’Europa sia risolvibile con politiche d’accoglienza spinte: nemmeno quelle basterebbero. Inoltre, anche se l’immigrazione apporta popolazione giovane non vuol dire che gli immigrati residenti conservino una “cultura della fecondità” di cui sono comunemente ritenuti portatori. In Italia, il secondo paese più vecchio al mondo, la popolazione immigrata è passata da una media di 2,5 figli per donna nel 2006 a una media di 1,9 nel 2015. “Hanno imparato in 6-7 anni a fare quello che gli italiani hanno fatto dagli anni Sessanta”, dice Blangiardo. L’invecchiamento della popolazione e la cronica bassa natalità allarma politici, economisti, autorità religiose. E anche dal punto di vista di un banchiere centrale i motivi di preoccupazione abbondano. La Banca dei regolamenti internazionali (Bri), che opera da Banca centrale delle Banche centrali, ha provato la correlazione tra l’aumento della popolazione e la bassa inflazione nel paper “Can demography affect inflation and monetary policy?” del 2015.

 

Lo studio, condotto analizzando 22 paesi nel periodo 1955-2010, afferma che l’aumento dell’età della popolazione ha un certo effetto inflazionistico, accelera la velocità di circolazione della moneta, contrariamente a quanto suggerirebbe la visione prevalente o, ad esempio, il caso del Giappone; paese più vecchio del pianeta e in deflazione da oltre un decennio. “Una quota maggiore di persone a carico (cioè giovani e vecchi) è correlato con l’inflazione più alta, mentre una quota maggiore delle coorti in età lavorativa è correlata con l’inflazione più bassa”, dice la Bri che però sottopone le sue analisi a ulteriori approfondimenti e lascia aperto il dibattito su quali siano le politiche più adatte, per quanto possibile, a gestire il fenomeno attraverso le leve monetarie. Una cosa però è chiara: l’invecchiamento della popolazione potrebbe limitare l’efficacia del programma di stimoli non convenzionali della Bce, in primis il Quantitative easing, perché si crea un ulteriore impedimento nel canale di trasmissione tra le banche e l’economia reale. Le persone anziane sono meno disposte a indebitarsi mentre i giovani europei, che in teoria dovrebbero essere più disposti a contrarre prestiti per finanziare progetti futuri, tipo mettere su famiglia, sono una piccola porzione di popolazione con un alto tasso di disoccupazione che decide di fare figli sempre più tardi. Un circolo vizioso. 

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.