Il ministro del petrolio iraniano Bijan Namdar Zangeneh, Vienna 2 giugno (LaPresse)

Così l'Iran cerca di farsi largo tra le crepe dell'Opec

Gabriele Moccia
A Vienna il regime degli ayatollah ha detto no alle proposte saudite per rompere la morsa del cheap oil. E' stato il rientro di Teheran tra i protagonisti del cartello. Parlano Daemi (Università di Manchester) e Ernesto Ferlenghi (Confindustria Russia)

Roma. L'ultimo vertice dell'Opec – il principale  cartello dei paesi produttori di greggio – della scorsa settimana è stato l'ultimo terreno dello scontro politico-economico tra Iran e Arabia Saudita. A Vienna il regime degli ayatollah ha, infatti, tentato l'ultima spallata alla ricerca dell'egemonia all'interno del cartello, dicendo no alle proposte saudite volte a rompere la morsa del cheap oil.

 

Nessuno ha potuto negare che la verà novità del vertice di giugno è stato il rientro dell’Iran tra i protagonisti del cartello. Il ministro del petrolio iraniano, Bijan Zanganeh, è atterrato in Austria ribadendo come il suo paese non intenda "rispettare gli attuali tetti di produzione" e voglia "ritornare alla situazione antecedente alle sanzioni in termini di quantità e percentuale di quote di produzione". Resta da vedere se la Repubblica islamica riuscirà a mantenere questi impegni.

 

Come dice al Foglio Siavush Randjbar Daemi – professore dei storia dell’Iran all’Università di Manchester – “le potenzialità dell'utilizzo dell'arma petrolifera da parte dell'Iran sono limitate. Teheran ha grossi problemi infrastrutturali, tra pozzi e raffinerie fatiscenti, mancata piena ripresa dei rapporti bancari e assicurativi con l'Occidente, rapido calo dei prezzi del greggio”. Sempre secondo Daemi: “Molti a Teheran stanno pensando a un'economia finalmente priva di dipendenza sul petrolio, un pensiero che vige dall'era di Mossadegh senza esser esaudito. L'intenzione principale dell'Iran al momento è quella di riassestare le casse statali, e generare introiti da sfruttare in investimenti extra petroliferi”. L'Iran deve ormai vedersela con un altro importante attore che a tratti assume i contorni dell'alleato e a tratti quello del nemico. “La Russia e l'Arabia Saudita stanno spingendo al massimo la produzione in attesa di capire se veramente l'Iran sia in grado, come ha dichiarato, di poter incrementare la propria produzione quotidiana di 1,5 milioni di barili in poco tempo”, dice al Foglio Ernesto Ferlenghi, esperto di affari energetici con un passato a capo dell’Eni in Russia e ora presidente di Confindustria Russia. Per Ferlenghi: “Quello che sembra soddisfare molti dei maggiori produttori è che questa sembra una fase in cui l'Opec non debba prendere decisioni e lasciare al mercato che faccia le regole, strategia che ha comunque portato il barile dai 27 dollari di gennaio agli attuali quasi 50 dollari, ma lontano dai 115 dollari del giugno 2014”. Si è ormai capito che – di fatto – senza la presenza di Russia e degli Usa (che boicottano da tempo il cartello) nessun tavolo è in grado di decidere alcunché di concreto. Ed ecco che allora da palazzo Hofburg – sede dell’Opec – la geopolitica energetica disegna nuove direttrici. A partire dal definitivo tramonto della potenza saudita.

 

A Vienna ha fatto il suo debutto il nuovo ministro del petrolio di Riad, Khalid Al Falih, che prende il posto di Ali Naimi, alla guida della politica energetica saudita dal 1995, uno degli architetti dell’Opec stessa. Uno dei principali sponsor del nuovo ministro Al Falih è il giovane rampante principe saudita Salman, che per attuare il suo ambizioso piano di riforme che passa anche dalla più grande privatizzazione che si sia mai vista (quella del colosso energetico nazionale, la Saudi Aramco) ha oggi bisogno di una figura più accomodante e distensiva rispetto all’ingombrante Naimi, odiato dagli iraniani, malvisto dai russi, per andare a caccia di un accordo definitivo e comprensivo. Il nuovo corso saudita ha, consentito la nomina di un nuovo segretario generale dell’Opec. Riad ha lasciato che a questa casella non fosse riconfermato il libico Al Badri – molto vicino al Regno – ma andasse ad una figura più neutrale come quella del nigeriano Mohammad Barkindo, che non a caso aveva già ricoperto tale carica ad interim prima dell’insediamento dello stesso Al Badri nel 2006.

 

Lo scetticismo circa le capacità dell’Opec di essere ancora la bussola del mercato è sempre più condiviso anche dalle grandi compagnie energetiche. L’ultima stoccata in questo senso è arrivata dall’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, che da New York – dove ha celebrato il ventesimo anniversario dell’Ipo del Cane a sei zampe al Nyse – ha pronunciato parole molto chiare: “I prezzi del petrolio sono ormai dettati dai fondamentali e non dalle decisioni dell'Opec e i fondamentali dicono che le quotazioni devono salire”.  Tuttavia, se la fine dell’Opec si avvicina occorre anche capire quale sarà il meccanismo che andrà a sostituire l’organizzazione, lasciare libere le forze del mercato potrebbe rappresentare una scelta forse troppo audace in un settore dove, tra le prime dieci compagnie petrolifere del mondo, ben sei sono realtà a forte controllo statale e dove il peso della geopolitica è ancora determinante.