Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici e monetari (foto LaPresse)

Fiscal compact, R.I.P.

Marco Valerio Lo Prete
E' ufficiale: per il momento la Commissione europea consentirà all’Italia di sfruttare tutto lo spazio di manovra fiscale a disposizione. Niente manovre di bilancio correttive.

Roma. E' ufficiale: per il momento la Commissione europea consentirà all’Italia di sfruttare tutto lo spazio di manovra fiscale a disposizione. Niente manovre di bilancio correttive. Lo 0,85 per cento di pil di flessibilità per l’anno in corso è così suddiviso: 0,50 per cento di pil in nome delle riforme approvate, 0,25 per cento per gli investimenti infrastrutturali, 0,04 per cento per l’emergenza rifugiati e 0,06 per cento per la sicurezza. “E’ stato stabilito un collegamento tra la flessibilità e il percorso di bilancio nel 2017”, ha detto Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici e monetari. Il ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan si è impegnato a raggiungere un rapporto deficit/pil dell’1,8 per cento nel 2017. La Commissione ha deciso anche di attendere luglio prima di una nuova verifica per eventuali sanzioni sul deficit di Spagna e Portogallo. “Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ritiene che l’approccio della Commissione alle politiche di bilancio degli stati membri sia il più appropriato”, ha aggiunto Moscovici. Una risposta velata alle critiche che, da più parti, sono iniziate a piovere da qualche giorno sull’esecutivo comunitario. Mercoledì, mentre il Foglio titolava “Si può dire? Sì, si può dire. Il Fiscal compact è morto, viva il Fiscal compact!”, il quotidiano conservatore tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung avvertiva: se la Commissione non deciderà di penalizzare in qualche modo gli stati membri che fanno segnare più deficit del previsto, ciò rafforzerà le ragioni di chi, come il governatore della Bundesbank Jens Weidmann o il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, vorrebbe un “arbitro” delle politiche fiscali più imparziale al posto di Jean-Claude Juncker e colleghi. Wolfgang Münchau, analista tedesco eurocritico e di scuola keynesiana, negli stessi fatti di queste ore legge la morte del vituperato Fiscal compact e un po’ se ne felicita: “Patto di Stabilità, R.I.P.”, s’intitolava mercoledì la sua newsletter, Eurointelligence. Il Fiscal compact, nato nel 2011 per stringere i bulloni dell’austerity nel Vecchio continente, è davvero rottamato? Lo chiediamo a Enzo Moavero Milanesi, conoscitore di lungo corso delle dinamiche comunitarie, già ministro per gli Affari europei nei governi Monti (2011-’12) e Letta (2013-’14): “Le critiche alla Commissione mi sembrano eccessive – dice Moavero Milanesi, ora direttore della School of Law della Luiss – L’esecutivo guidato da Juncker rivendica un profilo più politico e non vuole decidere sulla sola base di calcoli contabili. Fa anzitutto una valutazione delle prospettive di politica economica dei vari paesi e quindi, del percorso intrapreso dall’Italia. Inoltre, esprime una sua valutazione più politica sull’insieme della situazione”.

 

Da più parti viene criticato proprio l’eccesso di discrezionalità politica cui sarebbe ricorsa la Commissione nell’accordare la flessibilità all’Italia, una discrezionalità tale che consente di sfuggire alle maglie di Fiscal compact, Six Pack e tutte le altre regole europee sui conti pubblici. “Questa impostazione discende dalla demonizzazione o, viceversa, dall’eccessiva esaltazione, che si è generata attorno al Fiscal compact”, dice Moavero Milanesi. L’ex ministro torna sulla ratio di  quell’insieme di regole e sulla loro evoluzione, su cui i governi italiani precedenti hanno avuto un’influenza non di poco conto. “Nel 2011, di fronte all’imperversare della crisi finanziaria, si ritenne utile chiarire l’insieme di regole che sovrintendevano alla gestione delle finanze pubbliche in Europa. Le regole ispiravano poca fiducia ai mercati e pesava il precedente del 2003, quando le regole vigenti furono piegate per volontà politica di Germania e Francia che allora ottennero di aumentare il loro deficit senza essere sottoposte a procedura d’infrazione”. I cambiamenti essenziali furono tre: la necessità di un voto a maggioranza per bloccare eventuali richiami della Commissione sul deficit eccessivo; l’introduzione di un obiettivo di pareggio di bilancio strutturale; l’impegno a ridurre il rapporto debito pubblico/pil di un ventesimo della distanza che separava alcuni paesi dal 60 per cento. La gabbia pareva d’acciaio, ma Moavero osserva che da subito “la Commissione Ue aveva previsto che prima di avviare procedure contro uno stato si sarebbe dovuto tenere conto di eventuali ‘circostanze eccezionali’. Inoltre, nell’ottobre 2011, al momento della stesura definitiva del Fiscal compact, il governo Berlusconi ottenne di aggiungere il riferimento ad ‘altri fattori rilevanti’”. Moavero Milanesi ricorda quanto lavorò per ottenere, ai tempi del governo Monti, un’ulteriore clausola, quella relativa agli investimenti produttivi: “Sarebbe stata utilizzabile da quei paesi, come il nostro nel 2013, che avevano un rapporto deficit/pil inferiore al 3 per cento”.

 

Dopodiché, con l’esecutivo Letta, fu stabilito un altro “sconto” per quei paesi virtuosi che avessero impiegato risorse per combattere la disoccupazione giovanile. Tutto ciò non impedì a politici e analisti bipartisan di paventare l’ipotesi di manovre monstre, nell’ordine di 50 miliardi o più, cui sarebbe stato costretto il paese per abbattere il debito: “Si sbagliava allora, e a volte ancora oggi, nel leggere queste regole, utilizzate come spauracchio per alimentare polemiche. Non solo infatti, anche per il debito, valgono tutti i fattori di flessibilità, come per il deficit. Proprio negoziando il Fiscal compact, nel 2012, ottenemmo che la regola della maggioranza necessaria in Consiglio per bloccare le procedure di deficit eccessivo, introdotta dal Six Pack pochi mesi prima, non valesse anche per le procedure sul debito pubblico eccessivo. Per quest’ultimo rimane dunque in vigore la procedura meno perentoria prevista, in origine, dal Trattato: è necessaria una maggioranza degli stati per aprire una procedura, non per respingerla”. Pertanto l’Italia, una volta uscita dalla procedura di deficit eccessivo, è stata in condizione di utilizzare con il tempo tutte queste clausole che i suoi diversi governi hanno negoziato con successo. Arrivando così al risultato di mercoledì, dunque. “Tutto ciò dimostra che il Fiscal compact non era così rigido. Nella situazione attuale, fra guerre vicine, terrorismo ed emergenza migranti, è comprensibile che la Commissione non se la senta di aprire altri fronti di tensione politica. Non va però dimenticato che in economia il giudizio ultimo, che in concreto conta di più, resta quello dei mercati. Lì si vedrà, in una sorta di ultima istanza, se convincono i giudizi della Commissione e le scelte politiche del governo, nonché la sostenibilità del deficit e del debito pubblico italiano e dei nostri ritmi di crescita. A questo non si sfugge”.