Su web economy, banche e tasse, l'Europa sembra compiacersi di essere un mondo a parte

Renzo Rosati
Nessuna big di internet è europea, nessun motore di ricerca, nessuna delle maggiori app; né alcun produttore di smartphone o pc. Nell'Ue la pressione fiscale media è salita al 40 per cento. E la conseguenza è la crisi del credito risolta in America, irrisolta in Europa.

Se nel 1998 Larry Page e Sergey Brin avessero creato Google in una università europea, anziché a Stanford in California, questa epocale storia di successo e progresso non sarebbe neppure iniziata. Già allora, e ancora più oggi, i regolatori della Commissione europea non avrebbero tollerato gli sconti fiscali che hanno consentito a colossi come Nike e Bank of America di finanziare per 450 milioni di dollari l’anno la Stanford, a beneficio non solo di Google ma di altre start up dell’ateneo di Santa Clara: per dire, Apple, Hp, Sun Microsystem, Yahoo, Cisco. Né, con le regole sui rischi in rapporto al patrimonio, avrebbero permesso alle banche di investire in titoli che nei primi anni Duemila, dopo la bolla della new economy, venivano considerati spazzatura speculativa.

 

Mentre Google e l’economia digitale tornano nel mirino della Commissione Ue, a dodici anni dalla multa inflitta a Microsoft, le autorità di Bruxelles combattono contemporaneamente altre due battaglie contro altrettanti protagonisti della parabola virtuosa di Mountain View: il fisco leggero, vedi il voyerismo sui Panama Papers o l’astio verso paesi con fiscalità di vantaggio come Irlanda e Gran Bretagna; e la libertà d’azione delle banche, che certo hanno sbagliato molto ma che adesso si trovano prigioniere di burocrazie contrastanti e tentazioni governative khomeiniste, dai requisiti patrimoniali al divieto di asset non garantiti, compresa la nuova tentazione di limitare l’acquisto di bond pubblici, ingenerando nuova incertezza. Una predicazione un po’ ariana del “risk free”, del rischio zero nell’economia che è la negazione degli spiriti animali che muovono ogni progresso, ogni innovazione tecnologica. In tutti e tre i casi – web economy, tasse e banche – mai guardando alla sostanza delle cose. Dal 2000 l’economia digitale ha raggiunto il 25 per cento del pil mondiale. Negli Stati Uniti però rappresenta il 33 per cento della ricchezza, tra produzione diretta, investimenti, brevetti e indotto. In Europa siamo sotto al 10; neppure la virtuosa Germania supera il nove per cento. La spiegazione è semplice: nessuna big di internet è europea, nessun motore di ricerca, nessuna delle maggiori app; né alcun produttore di smartphone o pc. In questo stesso quindicennio la pressione fiscale media nella Ue è salita al 40 per cento, e il dato non è peggiore solo grazie ai nuovi partner a bassa tassazione dell’Est europeo.

 

Negli Stati Uniti il peso del fisco federale si è ridotto dal 25 al 20 per cento; con il prelievo dei singoli stati siamo dieci punti al di sotto dell’Europa. Quanto alle banche, e a parte gli sforzi titanici di Mario Draghi di far affluire capitali al mercato, assistiamo al gioco al rialzo dirigista al quale prendono parte i governi (la Germania in modalità Wolfgang Schäuble su tutti), la vigilanza della Bce di Danièle Nouy, l’Antitrust di Margrethe Vestager impegnata anche contro Google, il commissario alla Stabilità finanziaria Jonathan Hill, la European banking authority. Ognuno a suon di circolari e minacce. La conseguenza è la stessa: crisi del credito risolta in America, irrisolta in Europa. Come per la web-economy. Come per le tasse. E dire che il motto della Stanford University è di un tedesco, l’umanista Ulrich von Hutten: “Die Luft der Freiheit weht”. Significa: “Soffia l’aria di libertà”. In California.