Business not as usual

Dove nasce l'onda lunga che sta investendo reti, giornali e tv in Italia

Antonio Pilati
Dopo anni di stasi, anche in Italia – quasi all’improvviso – il mercato delle televisioni e in generale il mondo dei contenuti da consumare su schermi si è mosso in moto e lascia presagire una vasta riorganizzazione.

Dopo anni di stasi, anche in Italia – quasi all’improvviso – il mercato delle televisioni e in generale il mondo dei contenuti da consumare su schermi si è mosso in moto e lascia presagire una vasta riorganizzazione. Vivendi e Mediaset si scambiano quote azionarie e Premium, la pay tv che compete a caro prezzo con Sky Italia, passa nelle mani del gruppo che controlla Canal Plus: lo scontro nel nostro mercato pay prende una dimensione europea. Chiudendo una stagione delle tlc fatta di false partenze, surplace e rinvii, Enel – con l’appoggio di Vodafone e Wind – dà vita a una società dedicata (Open Fiber) che entro il 2020 dovrà dotare il 100 per cento del paese con una connessione a 30 Mbps e il 50 per cento con una connessione a 100 Mbps: Telecom, l’ex monopolista che vuole tutelare il patrimonio della sua rete in rame e quindi si affida a un piano di sviluppo meno aggressivo motivandolo con una domanda debole di banda larga, trova uno sfidante di peso e dovrà rifocalizzare la strategia.

 

Per la Rai, pressata dai mutamenti nell’arena competitiva, il cambio nel metodo di riscossione del canone e il rinnovo della concessione annunciano una fase inedita: quale sarà il destino delle probabili risorse aggiuntive? Infine i quotidiani: dopo la mossa di Repubblica che conquista la Stampa e consolida quasi un quarto del mercato nazionale, anche il Corriere della Sera entra in una nuova partita e, se l’Offerta pubblica di scambio (Ops) di Cairo andrà in porto, diventerà il pezzo pregiato di un gruppo multimedia imperniato su La 7.

 

Sono tutte mosse che implicano investimenti, revisioni di strategia, maggiore competizione. Dall’esterno arriva una pressione sempre più forte e la tendenza a fare business as usual si rivela una trappola mortale. Il mondo Internet, che spesso non rispetta i diritti di proprietà intellettuale, assorbe porzioni via via più ampie di tempo sociale, Google e Facebook catturano quote crescenti di pubblicità, il consumo di immagini passa sempre più attraverso congegni portatili, nascono di continuo nuovi flessibili modelli di distribuzione dei contenuti. Tutto ciò amplia la libertà di scelta degli spettatori e dei lettori, frammenta i consumi, erode pubblico e risorse del broadcasting basato su palinsesti rigidi. La risposta degli operatori minacciati è simile in tutto il mondo: più investimenti nelle reti di distribuzione, più innovazione (e più risorse) nella creazione di contenuti. Ne segue una drastica selezione dei player e, in combinata, una corsa a maggiori dimensioni: dappertutto – nelle tlc come nei settori dei contenuti – acquisti, fusioni, consolidamenti sono all’ordine del giorno.

 

In Italia questi sviluppi prendono una risonanza particolare. Toccano infatti due storici punti critici: la fragilità delle reti tlc adatte alla distribuzione di immagini e la debolezza del settore che produce contenuti audiovisivi (imprese di piccola taglia, export modesto, poca propensione al rischio). In via potenziale le iniziative in corso possono dare rimedio alle criticità. Mentre finora, tranne poche città, la fibra mancava, domani forse avremo due reti concorrenti (con i rischi che la competizione sulle infrastrutture comporta: i clienti hanno benefici, ma i conti degli operatori possono sballare).

 

Quanto ai contenuti, il loro sviluppo sembra al centro dell’accordo Vivendi/Mediaset, anche se in prima battuta risulta cruciale l’aspetto finanziario: Bolloré rafforza il suo controllo, ancora incompleto (14,5 per cento), su Vivendi con la sponda (3,5 per cento) di un alleato fidato e Mediaset trasforma un’attività che fin dall’inizio perde in un asset di valore strategico. Se si guarda in prospettiva, però, l’avvio di un’alleanza a largo raggio amplifica il potere negoziale con le grandi fabbriche americane di contenuti, estende gli sbocchi disponibili per la produzione propria e incentiva a dedicare più risorse a film, format e fiction. Mediaset può finalmente dare consistenza a quel polo produttivo che per varie ragioni – dal naufragio dell’alleanza con Cecchi Gori al caso Endemol fino all’ipervalutazione di Taodue – in passato le era sempre sfuggito.

 

Oggi in Europa c’è solo un altro broadcaster di taglia analoga: è Sky che, prima ancora di Netflix, promette di essere il bersaglio principale dell’alleanza italo-francese trasformando il nostro paese, dove si affrontano a tutto campo due piattaforme pay, nel terreno elettivo dello scontro. In Italia il mercato televisivo si articola oggi su cinque player di cui almeno tre si stanno rafforzando o con alleanze e acquisti (Mediaset e Cairo) o per crescita naturale (Discovery).

 

 

Le sfide urgenti per la Rai

 

Mentre Sky difende con smalto aggressivo la sua leadership, chi patisce di più è Rai: appesantita da un organico pletorico, impacciata da una fitta trama di regolamenti e procedure che spostano l’asse aziendale dall’azione al controllo, sbilanciata sul pubblico anziano, consuma – per ragioni strutturali – troppe risorse nell’attività ordinaria e contribuisce poco allo sviluppo di sistema. Anche nel settore dove ha più meriti, quello della produzione di fiction (qui gli investimenti dei privati sono minoritari), i risultati sono deboli: l’industria ha poca forza sui mercati esteri e rischia di essere assorbita a poco prezzo dai big internazionali. Il prevedibile aumento del gettito da canone (recupero dell’evasione) è l’occasione per organizzare un uso più efficace delle risorse. Il broadcasting va verso una fase di consumi volatili e di competizione intensificata: gli operatori privati aggiornano alleanze, strategie, investimenti; il versante pubblico, per adesso ancora incerto, è chiamato a dare una risposta all’altezza della sfida.

 

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