La primavera bancaria avanza con l'arrivo di Apollo in Carige

Ugo Bertone

Il fondo di private equity americano s’offre di liberare la banca dai crediti cattivi (sofferenze per 695 milioni, pari al 17,8 per cento del valore nominale) con l’ok della Bce. Cosa vuole Leon Black

Milano. Il fondo Apollo offre di comprare incagli e sofferenze accumulate dalla banca ligure Carige per 695 milioni, pari al 17,8 per cento del valore nominale. Una svalutazione in grado di mandare in rosso il patrimonio della banca salvo che, per compensare l’effetto negativo, i fondi di Apollo si dichiarano pronti a sottoscrivere un aumento di capitale da 500 milioni più altri 50 milioni in opzione agli attuali soci, tutt’altro che lieti per l’avanzata degli investitori americani, discreti come un elefante in cristalleria. Salvo che, nel safari nella savana bancaria, Apollo conta su un alleato prezioso: la Vigilanza europea, il braccio armato della Banca centrale europea. Francoforte, che ha già bocciato un primo piano industriale di Carige, ha in pratica avallato l’offerta americana.

 

Perciò, delle due l’una: o passa l’offerta di Apollo oppure la banca deve presentare un piano altrettanto credibile che “tenga nota del deterioramento della situazione”. Una situazione quasi ingovernabile per il nuovo cda che, con la guida di Giuseppe Tesauro, dovrebbe insediarsi dopo l’assemblea di giovedì prossimo. Da una parte l’interesse dei soci, sia quelli che fanno capo a Vittorio Malacalza sia quelli vicini a Gabriele Volpi e ad Aldo Spinelli, uniti dal “no” al blitz che minaccia di consegnare la maggioranza del private americano. Dall’altra, la presa di posizione di Francoforte, nuovo segnale che la rivoluzione bancaria, mille volte annunciata, ha ormai preso corpo.

 

La Vigilanza europea, indipendente dal direttorio ma s’indovina non in dissenso con Mario Draghi, dà infatti l’impressione di volere accelerare il processo di riforma delle banche di casa nostra, lento e contrastato nonostante gli input in arrivo da Palazzo Chigi. In questa cornice s’inquadra la scelta di obbligare il Banco Popolare a un aumento di capitale da un miliardo che gli azionisti forti dell’istituto hanno cercato di evitare in ogni modo. Così come la durissima lettera con cui la banca ha bocciato le proposte per risanare Carige dal peso dei crediti inesigibili. Il messaggio è: le banche italiane non potranno contare su una lunga moratoria per liberarsi della zavorra delle sofferenze.

 

La congiuntura economica non permette di sperare in una ripresa che consenta di invertire il trend ancora negativo del settore, così come non è possibile sperare che le soluzioni legislative, pur utili, possano fare miracoli. La via maestra, al solito, passa dall’iniezione di capitali, senza farsi troppo condizionare dai tabù di un tempo: ben venga dunque l’acquisto della maggioranza da parte di un soggetto non europeo, così come l’arrivo di un fondo di private equity che, per sua natura, compra e vende senza la pretesa di fare da socio stabile.

 

Leon Black, cresciuto negli anni Ottanta alla scuola di Mike Milken, una leggenda della finanza a stelle e strisce, non fa certo mistero delle ragioni che lo spingono a puntare sulle banche europee, specie quelle del Bel paese. “Il ritardo della ripresa europea rispetto agli Stati Uniti – è la sua analisi – dipende in buona parte dalla diversa condizione del sistema bancario. Negli Stati Uniti, a fronte di un pil di 18 mila miliardi di dollari, l’intermediazione bancaria è grosso modo di 13 mila miliardi. In Europa, a fronte di un pil di dimensioni analoghe, le banche amministrano circa 60 mila miliardi. Il mondo del credito insomma è sovradimensionato e inefficiente perché finora non c’è stata un’autorità europea efficace. Ma credo che nel prossimo futuro le banche europee siano destinate a cambiare”. 

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