Elsa Fornero (foto LaPresse)

Salvate la Fornero

Veronica De Romanis
Perché è sbagliato modificare una riforma che ha il pregio di mettere in ordine i conti pubblici

Al direttore - Si parla molto, in questi giorni, di una riforma delle pensioni comprensiva di clausola di flessibilità, ossia della possibilità di andare in pensione anticipatamente (63 anni invece che 67) con un assegno di importo ridotto. Secondo i sostenitori della flessibilità, il vantaggio di questa modifica alla riforma Fornero sarebbe duplice: da un lato si consente, a chi lo desidera, di smettere di lavorare prima, dall’altro si liberano posti di lavoro per i giovani. A parte il fatto che modificare una riforma varata da poco tempo – e che ha il pregio di tentare di mettere in ordine i conti pubblici – potrebbe non essere la strategia migliore in questo momento, c’è da chiedersi se questo tipo di intervento sia auspicabile dal punto di vista della sostenibilità delle finanze pubbliche e da quello degli eventuali guadagni occupazionali.

 

La sostenibilità della spesa pensionistica italiana, come indicato dall’ultimo Documento di economia e finanza (Def), dipende da una serie di assunzioni sulle variabili macroeconomiche. Dal lato della crescita, il Def ipotizza un tasso medio di variazione del pil reale pari all’1,5 per cento fino al 2060. E’ poco? E’ molto? Difficile rispondere: molto dipenderà dalla forza dell’azione riformatrice del governo. Certo è che se si guarda al passato, si evince che, al netto del periodo di crisi, la crescita negli ultimi dieci anni non ha mai superato l’1 per cento. Anche sul fronte occupazionale, le ipotesi adottate appaiono ottimistiche. Il tasso di occupazione (di età compresa tra 15 e 64 anni) è previsto crescere di circa 5 punti percentuali nell’arco dei prossimi quarant’anni, dal 55,7 per cento del 2014 al 60,3 per cento del 2060. Anche in questo, la dinamica degli ultimi dieci anni ci restituisce un quadro non del tutto roseo: la percentuale di occupati sul totale della popolazione di riferimento è passata dal 57,7 per cento al 55,7 per cento, in diminuzione di due punti percentuali. Nello stesso periodo, il tasso di occupazione tedesco è cresciuto di oltre 8 punti percentuali (dal 65 del 2004 al 73,8 per cento del 2014). L’Italia deve, quindi, recuperare un divario non solo con la Germania (18 punti percentuali) ma anche con gli altri paesi dell’area dell’euro (la media euro è del 63 per cento) considerando che solo la Grecia fa peggio di noi (49,4 per cento). Il paese ha, quindi, bisogno di più persone che lavorino (in particolare di donne e di giovani donne) e non di più persone che percepiscano l’assegno pensionistico. 

 

Per quanto riguarda il secondo obiettivo della flessibilità – quello del ricambio generazionale – diversi studi dimostrano che non c’è nessuna relazione inversa tra il tasso di occupazione dei lavoratori in età della pensione e il tasso di occupazione giovanile. Semmai, è vero il contrario: i paesi con tassi di occupazione elevati registrano tassi bassi di disoccupazione tra chi ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni: la Germania ne è l’esempio. Questo perché il posto lasciato libero da chi va in pensione anticipatamente non necessariamente può essere occupato da un giovane. I motivi sono molteplici e piuttosto ovvi: competenze diverse, posti che diventano obsoleti, ecc.

 

[**Video_box_2**]Per combattere la piaga della disoccupazione giovanile servono, invece, interventi mirati: politiche attive del mercato del lavoro (quando comincerà a operare l’Agenzia unica del lavoro italiana?) e investimenti nel sistema duale (la Germania spende circa due miliardi l’anno per mettere in contatto i giovani con il mondo delle aziende, l’Italia ha previsto un esborso di circa 100 milioni in tre anni). E una buona riforma della pubblica amministrazione: il flop del progetto europeo “Garanzia Giovane” è ascrivibile anche all’inefficienza dei servizi pubblici.

 

In conclusione, la flessibilità in uscita mina la tenuta delle finanze pubbliche e non avvantaggia i giovani. Ma neanche gli anziani che decidono di andare a casa prima. Questi ultimi rischiano, infatti, di diventare molto presto dei “nuovi poveri” perché si troveranno a dover vivere con un assegno pensionistico decurtato e con il rischio – molto elevato – di vederselo ridurre ulteriormente dall’ennesima riforma che potrebbe rivelarsi necessaria per garantire la sostenibilità dei conti.

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