Matteo Renzi (foto LaPresse)

Da Roma a Londra, come si evita il funerale dell'Europa

Marco Valerio Lo Prete
C’era una volta, in Italia, il “fascismo degli antifascisti”, spiazzante e inammissibile per i suoi stessi animatori. E c’è oggi da parte del governo italiano, su un fronte del tutto diverso, la volontà di giocare una carta altrettanto spiazzante, e certo inammissibile in pubblico da parte dell’esecutivo.

Roma. C’era una volta, in Italia, il “fascismo degli antifascisti”, spiazzante e inammissibile per i suoi stessi animatori. E c’è oggi da parte del governo italiano, su un fronte del tutto diverso, la volontà di giocare una carta altrettanto spiazzante, e certo inammissibile in pubblico da parte dell’esecutivo: “L’antieuropeismo degli europeisti”. A partire dallo scorso dicembre, infatti, Matteo Renzi tiene assieme critiche tutt’altro che velate a Bruxelles e al motore tedesco dell’Unione europea, al fianco di rivendicazioni esplicite di appartenenza alla covata europeista. Lunedì c’è stata l’ultima dimostrazione del suddetto schema di gioco: prima una conferenza arrembante di Renzi con i giornalisti della stampa estera, e subito dopo è arrivata la pubblicazione di otto proposte governative per “Una strategia europea condivisa per la crescita, il lavoro e la stabilità”.

 

Il presidente del Consiglio, che già negli scorsi giorni si era scontrato con l’ex premier Mario Monti sull’atteggiamento da tenere in Europa, lunedì è tornato a marcare le distanze dai suoi predecessori a trazione tecnocratica: “La crescita è sufficiente? Per me no, ma con Monti era al meno 2,3 per cento e con Letta a meno 1,9. Siamo passati dal meno al più. Non emoziona, ma meglio più che meno”. Poi, rivolto alla Commissione europea che in queste settimane sta esaminando la legge di Stabilità italiana e rimuginando sulla flessibilità da concedere o meno a Roma, ha aggiunto: “L’Europa non è nata solo per tenere insieme i parametri di Maastricht che, peraltro, siamo tra i pochi a rispettare”. Il “dàgli agli euroburocrati” trova invece poco spazio nel documento pubblicato lunedì dal governo, a firma congiunta di Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Nel quale si riconosce che “il progetto europeo sta attraversando una crisi senza precedenti”, anche perché le politiche messe in campo contro la crisi “sono percepite spesso come insufficienti dai cittadini europei”. E nel quale è scritto nero su bianco che l’Europa dev’essere “parte della soluzione e non del problema”. Dopodiché seguono otto proposte di rilancio, tutte declinate in gergo perfettamente brussellese. Ai capitoli “governance” e “fiscal policy” non mancano le frecciatine a Berlino: quando si rivendica l’utilità della comunicazione della Commissione sulla flessibilità fiscale, risalente al gennaio 2015, e quando si sostiene la necessità di “maggiore simmetria” nell’aggiustamento macroeconomico perché “avanzi delle partite correnti troppo grandi hanno un impatto negativo sul funzionamento complessivo dell’Eurozona”.

 

[**Video_box_2**]Tuttavia è sul tema della “condivisione del rischio”, trasversale a tanti dossier oggi in discussione (non solo economici), che il governo italiano si fa portatore di una visione alternativa rispetto a quella “ri-nazionalizzatrice” che sta prendendo piede nell’establishment tedesco. E così, secondo il governo italiano, la politica monetaria espansiva della Banca centrale europea non deresponsabilizza i governi – come sostiene per esempio il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann – ma anzi “crea una finestra di opportunità per sospingere lo sforzo riformatore e accrescere la crescita potenziale”. E se Roma accetta l’idea che sull’Unione bancaria si debba procedere in parallelo con una riduzione dei rischi in capo agli istituti di credito e una loro condivisione – Draghi dixit – la convinzione è che “molto è stato fatto per ridurre i rischi”, molto meno per condividerli: da qui l’urgenza della garanzia comune sui depositi. Una filosofia che è pure dietro la proposta di un sussidio comune di disoccupazione a livello europeo: “L’implicita condivisione del rischio sarebbe una forza trainante per le riforme e per l’implementazione di misure coerenti tra gli stati membri”. Idem, infine, per la gestione dell’immigrazione, il cui finanziamento potrebbe arrivare da “un meccanismo mutualizzato che possa comportare l’emissione di bond comuni”. Anche il ministro delle Finanze dell’Eurozona, idea che Renzi aveva di fatto accantonato in un suo recente intervento su Repubblica, ritorna auspicabile soltanto se “politicamente puntellato” e se reso responsabile di fronte al Parlamento europeo. E’ con proposte simili, alternate alle intemerate da cattivo ragazzo del premier, che avanza l’europeismo degli antieuropeisti di Palazzo Chigi. Un crinale scivoloso da percorrere, sempre passibile di incomprensioni – specialmente all’estero –, ma forse l’unico a essere politicamente sostenibile in Italia e allo stesso tempo sinceramente alternativo agli ultimatum referendari à la Cameron. Se a Bruxelles tutto ciò pare opportuno, lo si capirà presto.