Mario Draghi (foto LaPresse)

A tu per tu con Merkel

Strategie e alleanze per emanciparsi dal vincolo tedesco. C'entra Draghi

Domenico Lombardi
I precedenti su politica monetaria e surplus commerciale, le riforme vitali e le strutture intellettual-diplomatiche

L’apparente quiete dopo lo scontro verbale dei giorni scorsi tra il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, consente – specie alla vigilia del bilaterale a Berlino con Angela Merkel – una riflessione sulle opzioni possibili entro le quali la tensione osservata verrà costruttivamente incanalata o, come in passato, puntualmente riassorbita, nei prossimi mesi. Il ruolo dialettico che il presidente del Consiglio intende delineare per l’Italia in Europa può essere sostenibile e, pertanto, credibile solo in presenza di tre condizioni: 1) che l’Italia costruisca in seno all’Eurozona un gruppo di interlocutori disponibili a condividere e ad appoggiare un ruolo dialettico nei confronti della Commissione, ergo la Germania; 2) che l’Italia si mostri più ambiziosa e zelante della stessa Commissione, ergo della Germania, sull’agenda riformista, anche se ne intende ricalibrare legittimamente le priorità in misura più congeniale alle sue esigenze; 3) che il presidente del Consiglio istituzionalizzi tale visione assertiva dei rapporti con l’Europa riformando la palude istituzionale italiana nella quale l’unico incentivo per la struttura burocratica è seguire con remissività il paese dominante.
Procediamo con ordine. Dall’inizio della crisi debitoria dell’Eurozona, non si sono registrate alleanze stabili per controbilanciare il peso della Germania anche se, in qualche occasione, si sono tatticamente coagulate delle intese su punti specifici dell’agenda.

 

Per esempio, nella preparazione del vertice europeo del giugno 2012, il governo Monti costruì un’intesa con la nuova amministrazione Hollande, imponendo al summit l’esigenza di una risposta sistemica di fronte al dilagare della crisi nell’Eurozona. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, alla fine ne dovette prendere nota e il mese dopo il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, pronunciava il famoso discorso di Londra che spianò la strada al programma Outright monetary transactions (Omt), introdotto nel settembre di quello stesso anno.

 

In altri casi l’asse è morto ancora prima di cominciare. La Spagna fu lasciata sola dall’atteggiamento pavido dell’Italia, quando sollevò a Bruxelles l’esigenza di un aggiustamento economico simmetrico che prevedesse una riduzione del surplus delle partite correnti della Germania per facilitare l’aggiustamento delle economie meridionali in deficit. Per inciso, nell’anno passato, il suo surplus corrente ha toccato il record dell’8,5 per cento del pil. Se è difficile costruire un’alleanza stabile con gli altri paesi della cintura meridionale dell’Eurozona intimoriti da una reazione ostile tedesca, esistono invece ampi margini per recuperare la relazione con il presidente della Bce. Il lessico su cui questo riavvicinamento può credibilmente materializzarsi è dato dalle riforme strutturali rispetto alle quali questo governo ha costruito la sua legittimazione popolare e su cui vanta alcuni, importanti successi. Del resto, se l’Italia vuol far passare la linea che la politica di bilancio va valutata in un contesto più ampio in cui gli sforzi per la crescita trovino almeno pari attenzione nella lente di ingrandimento adoperata a Bruxelles, deve pur mostrarsi più riformista dei riformisti. Nel maggio dello scorso anno, il presidente della Bce notava che, in ogni conferenza stampa da lui tenuta in qualità di banchiere centrale dell’Eurozona, concludeva con l’esortazione per i paesi membri dell’area monetaria ad accelerare le riforme strutturali. Quando si parla di riforme strutturali, non si fa solo riferimento a complesse misure di razionalizzazione della spesa pubblica che, per la verità, sembrano essere state accantonate. Rientra in quest’agenda anche il novero di misure regolamentari e amministrative che farebbero salire l’Italia dal 45esimo posto nella classifica della Banca mondiale (la Germania è al 15esimo e la Spagna al 33esimo) sulla capacità dei paesi membri di attrarre investimenti. Rientrano pure in tale agenda le riforme strutturali “esterne”, attuate attraverso accordi commerciali internazionali e, naturalmente, tramite il completamento del mercato unico.

 

[**Video_box_2**]Su questo l’Italia ha un’occasione unica di punzecchiare l’ambivalenza della Germania nei negoziati sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) tra la Ue e gli Stati Uniti. Da un lato ne sostiene formalmente l’obiettivo, dall’altro fa melina mettendo sabbia negli ingranaggi in ossequio al suo partner strategico privilegiato, la Cina. Da un lato, redarguisce i suoi paesi partner per la scarsa competitività, dall’altro scoraggia, di fatto, l’allargamento di quei mercati che l’innalzamento della competitività premierebbero. L’attuazione di queste possibili misure, così ampie e diverse, richiede una cabina di regia che ne istituzionalizzi la priorità trasmettendone coerentemente gli impulsi attraverso le agenzie competenti. Gli Stati Uniti l’hanno istituita nel 1993 con il National economic council (Nec) insediato presso la Casa Bianca. Il Nec coordina l’intera sfera delle politiche economiche domestiche e internazionali, monitora che le decisioni assunte dalla varie branche dell’esecutivo siano coerenti con l’agenda presidenziale. L’integrazione della dimensione domestica con quella regionale e globale è vitale per un paese come l’Italia che, per sganciarsi da una relazione a senso unico con la Germania, deve ricercare spazi, sia politici che economici, assai più ampi. Eppure, per dare credibilità a una nuova politica verso l’Europa non vi è alternativa né troppo tempo disponibile.

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