Matteo Renzi con Angela Merkel (foto LaPresse)

Se Merkel si ritira dalla leadership europea, sono guai per Renzi

Marco Valerio Lo Prete
Il premier, il “vincolo esterno” europeo e quella nuova dinamica tedesca che può inguaiare la nostra economia. Parla l'economista Marcello Messori

Roma. “L’Europa non ne azzecca più una: dobbiamo aiutarla a cambiare”, ha detto Matteo Renzi. Detto altrimenti: il “legno storto” è domiciliato a Bruxelles e non nel paese reale italiano. Il presidente del Consiglio, nelle ultime settimane, ha iniziato a scalfire – almeno a parole – il principio del “vincolo esterno” ossequiato da tutti i suoi predecessori di sinistra o di tendenze tecnocratiche. Adesso però quel “vincolo esterno” potrebbe lentamente implodere da solo, in ragione di sommovimenti interni ai paesi leader dell’Unione europea e in particolare alla Germania. Dalla sospensione di Schengen alla rinazionalizzazione dei rischi sovrani e bancari, la questione è molto meno teorica di quanto sembri. Renzi se ne potrebbe accorgere già venerdì, in occasione del bilaterale con la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Ne è convinto Marcello Messori, economista e direttore della Luiss school of european political economy, che assieme a un manipolo di colleghi come Lorenzo Bini Smaghi (ex Banca centrale europea), Franco Bruni (Bocconi), Stefano Micossi (Assonime) e Fabrizio Saccomanni (ex direttore generale della Banca d’Italia) ha pubblicato un saggio intitolato “Eurozona, la responsabilità dell’Italia” ma che potrebbe chiamarsi pure “Eurozona, tutti i rischi del grande disimpegno tedesco”. 

 

Renzi dice che in questa fase l’Unione europea sbaglia quasi sempre e che l’Italia è lì per correggerla. “Sull’atteggiamento di Renzi rispetto al ‘vincolo esterno’ siamo di fronte a una novità politica, non c’è dubbio – dice al Foglio Messori, fino allo scorso novembre presidente di Ferrovie dello Stato – Ma a rendere tutto ancora più complicato c’è il fatto che il governo italiano rischia presto di non avere più l’opzione di rifiutare questo ‘vincolo esterno’”. Si spieghi: “In un primo momento, i paesi leader dell’Eurozona, Germania in testa, hanno provato a rispondere alla crisi accentrando il coordinamento delle politiche economiche dei paesi dell’euro. L’idea era: prima stabiliamo regole comuni, e non appena le stesse verranno pienamente rispettate allora potremo condividere tra di noi alcuni rischi. Una prospettiva compatibile con un federalismo a bassa intensità”. Questa la logica che era dietro Fiscal compact, Semestre europeo, Six Pack e Two Pack. Il coordinamento accentrato, però, per varie ragioni ha perso appeal: vuoi per le eccessive “tensioni temporali” tra il momento delle regole imposte dai paesi leader e quello della condivisione dei rischi fra tutti, vuoi per le insofferenze dei paesi della periferia o per la trasformazione della Bce in pivot finanziario a difesa dell’integrità della moneta unica, vuoi soprattutto per motivazioni politiche nazionali tutte tedesche. “Perciò dal coordinamento accentrato stiamo pericolosamente passando a un meccanismo decentrato. Vale a dire che Berlino ha iniziato a trasferire le responsabilità dell’aggiustamento in capo ai singoli paesi, soggetti a una supervisione comune ma poco incisiva”. In altre parole: con Fiscal compact e dintorni si erano strette le viti del “vincolo esterno”; oggi invece quello stesso vincolo si fa più lasco su alcuni dossier. “Dall’immigrazione alle banche, però, saranno i paesi più fragili come il nostro a rimetterci”, avverte Messori.

 

Messori, nella conversazione con il Foglio, cita il dossier dell’Unione bancaria: “Quest’ultima fu pensata dopo che era già stato istituito il Fondo salva stati, o Mes, che una qualche forma di mutualizzazione di rischi fra stati dell’Eurozona la prevedeva. E dopo l’attivazione da parte della Banca centrale europea dello ‘scudo anti spread’, o Omt, anch’esso con il suo elemento di condivisione. Allo stesso modo, in origine, l’Unione bancaria doveva reggersi su tre gambe: il supervisore unico (Ssm) presso la Banca centrale europea, il Meccanismo unico di risoluzione (Srm), infine appunto un sistema di garanzia comune dei depositi a livello europeo. Il Fondo di risoluzione però si è scelto di completarlo solo nel 2023, dopodiché Berlino ha deciso di fatto di bloccare la garanzia comune sui depositi”. L’economista suggerisce di cercare gli indizi di un progressivo disimpegno tedesco nel tipo di “paletti” che la leadership di quel paese ha frapposto al completamento dell’Unione bancaria: “S’intende attribuire un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi dell’Eurozona, costringendo le banche a non considerarli più come titoli privi di rischio. Come abbiamo scritto nel nostro saggio, inoltre, sono anche in discussione nuove regole che stabiliscano limiti precisi alla quantità di titoli sovrani di un singolo paese nel bilancio di ogni banca”. Ciò vuol dire che Berlino non vuole alcuna condivisione dei rischi bancari se prima non sarà definitivamente “allentato” il legame tra rischio sovrano e rischio bancario. E soprattutto, a un livello forse più filosofico, “prezzare un rischio su questi titoli equivale a dire implicitamente che esiste una possibilità di default di un paese membro”. 

 

Anche perché nel frattempo, sempre dal ministero delle Finanze tedesco, si è fatto trapelare un altro progetto che prevede la ristrutturazione del debito pubblico di quei paesi che per qualche ragione dovessero chiedere aiuto al Fondo salva stati. Scrivono nel paper gli economisti del team di Messori: “Una volta spinti i titoli del debito pubblico di un paese fuori dai bilanci bancari di quello stesso paese, al sopravvenire di una crisi sarebbe possibile procedere alla ristrutturazione del suo debito senza devastare il suo sistema bancario e senza troppo condizionare – in linea teorica – la sua attività economica privata. A completamento di tale decentramento del rischio sovrano, meccanismi automatici di ristrutturazione del debito, attraverso l’allungamento delle scadenze dei titoli pubblici, verrebbero disposti e fatti valere ogni qual volta un paese perdesse accesso al mercato per finanziare il proprio debito pubblico e fosse quindi costretto a rivolgersi al Meccanismo europeo di stabilità per ottenere assistenza finanziaria”.

 

Se questa nuova tendenza a trazione tedesca si affermasse, non assisteremmo solo al deragliamento dell’Unione bancaria, cioè di quella che Mario Draghi ha definito la più importante riforma della governance dell’euro dai tempi dell’introduzione della moneta unica. “Già oggi i crediti bancari problematici e l’alto debito pubblico sono una zavorra per il nostro paese. Un domani, se svanisse ogni prospettiva di risk sharing europeo, lo scenario diverrebbe addirittura pericoloso. E così per tutti i paesi più fragili dell’Eurozona”. La caduta dei titoli azionari dei gruppi bancari più deboli è una spia di ciò. Così come, in un campo completamente diverso, proprio i paesi periferici risentirebbero di una sospensione prolungata – da parte dei paesi nordici – degli accordi di Schengen sulla libera circolazione, con annesso gravame sui paesi che fanno da frontiera esterna rispetto a flussi migratori senza precedenti. 

 

 

[**Video_box_2**]Renzi di fronte alla ritirata merkeliana

 

A Messori chiediamo cosa ci sia dietro tale forma di ripiegamento della Germania. “Le motivazioni sono molteplici. C’è la presa d’atto, di fronte alle tensioni con la Francia e la Spagna sul deficit pubblico e con l’Italia sul debito, che l’approccio del ‘coordinamento accentrato’ funziona soltanto fino a un certo punto. Poi Berlino è in una fase di aperta dialettica con la Commissione Ue, la cui interpretazione delle regole è giudicata troppo flessibile dai tedeschi. D’altronde non potevano restare senza conseguenze i lunghi mesi di estenuanti trattative sulle sorti della Grecia, a un passo dall’uscita dall’euro. Infine la gestione della crisi migratoria ha allontanato dalla Germania anche i paesi dell’Europa orientale e soprattutto, in queste ultime settimane, ha indebolito la Merkel all’interno del paese”. Ecco i fattori con cui si spiega, agli occhi dell’economista della Luiss, “un nuovo picco di sfiducia tra i paesi della moneta unica, sfiducia che spinge verso il decentramento dei rischi e delle responsabilità, verso l’abbandono del coordinamento da parte delle istituzioni europee”.

 

Il “vincolo esterno” si affloscia, insomma, ma per le modalità con cui ciò sta accadendo è tutt’altro che una buona notizia, sostiene Messori. Come dovrebbe reagire Renzi, dunque? “L’Italia, come tutti i paesi più fragili, dovrebbe fare sponda con la Bce e le altre istituzioni comunitarie per creare forme di coordinamento accentrato. E’ inscindibile da ciò uno sforzo riformatore da perseguire all’interno del paese, per alimentare quel senso di fiducia che altrimenti andrà definitivamente in frantumi”. Se pure venisse meno il “vincolo esterno”, conclude Messori, a maggior ragione sarebbe il momento della “responsabilità nazionale”.