Guido Carli

Il vincolo esterno come unico argine al peggio degli italiani? Produce deresponsabilizzazione

Alessandro Aresu
Le ragioni per puntare su un “vincolo interno” ci sono. E ciò non vuol dire necessariamente fare il tifo per una democrazia sovrana e nazionale vecchio stile

Nel 2001 Lucio Caracciolo concludeva la sua disamina delle radici geopolitiche della crisi italiana con un elogio del “vincolo interno”. L’obiettivo polemico era la curiosa teoria italiana del “vincolo esterno” propugnata da Guido Carli. Cerchiamo di capire meglio i limiti del vincolo esterno e l’importanza del vincolo interno, attraverso tre tappe: Carli, Predieri e Napolitano.

 

Il mondo di Carli e il nostro


Per Guido Carli, l’Italia era lacerata da due anime incompatibili: da una parte, la gestione delle imprese da parte della mano pubblica (l’anima corporativa), dall’altra un sistema di regole in grado di lasciare spazio all’iniziativa privata (l’anima liberale). La lettura di Carli della Repubblica dei Partiti, nell’autobiografia intellettuale scritta con Paolo Peluffo (“Cinquant’anni di vita italiana”), sostiene che l’anima liberale sia sopravvissuta solo grazie alla spinta del vincolo internazionale. La campana del vincolo esterno ha suonato in tre tappe fondamentali del Novecento: l’aderenza dell’Italia a Bretton Woods, il Sistema Monetario Europeo figlio della crisi degli anni ’70 e infine il Trattato sull’Unione Europea, politica, economica e monetaria. Queste tappe hanno rappresentato la potenziale salvezza dell’Italia. Carli muore nel 1993, e per lui Maastricht è l’ultima spiaggia per sconfiggere lo spirito corporativo che portava l’Italia a unire il peggio del capitalismo e il peggio del socialismo, deresponsabilizzando l’imprenditore e aprendo a un intervento statale schizofrenico e inefficace.

 

Dobbiamo leggere Carli con rispetto e ammirazione, perché fu attivo nella Banca d’Italia, in Confindustria, nel Governo, nell’accademia facendo la sua parte per cambiare le cose. Era dotato di una notevole consapevolezza politica, come mostrano le testimonianze pubblicate da Bollati Boringhieri nel 2014, tra cui quella di Mario Draghi. Eppure, come ha sottolineato l’allievo Paolo Savona, nel testamento teorico di Carli prevale il pessimismo. Nel 2011 Savona dichiarò in Senato: “Al mio maestro dicevo che il vincolo esterno non induce il Paese a correggersi, perché è un fatto culturale: se si deve correggere, lo si deve fare dall’interno e non su imposizione esterna”.

 

Sembra che Savona abbia avuto ragione sul maestro. Il vincolo esterno per l’Italia è diventato, in ultima analisi, una forma di deresponsabilizzazione: gli italiani sono ritenuti capaci di diagnosi, ma non di terapie, sui tre punti che Carli riteneva fondamentali (il mutamento della costituzione materiale, l’abbattimento dell’economia mista, l’alienazione del patrimonio immobiliare pubblico). Ci serve un aiutino. Grazie agli ordini degli altri, smetteremo di dare il peggio di noi stessi. Anche se non ci saremo liberati, saremo liberi. Alla fine della sovranità, verrà innestata la civiltà da uomini di buona volontà. È un po’ come svegliarsi una mattina col pizzetto biondo, in Norvegia.

 

Il danno del vincolo esterno si è espresso in due modi: l’affido alle grandi personalità e la sua saldatura con la scommessa perduta sulla fine della sovranità.

 

In primo luogo, la realizzazione del vincolo esterno si lega a singoli uomini più o meno “eccezionali”, senza radicarsi nella società. Come sappiamo, Raffaele Mattioli aveva la stima degli interlocutori internazionali e li stupiva con le citazioni di Shakespeare, Guido Carli garantiva la lira col suo curriculum. A un certo punto questo circolo si blocca, ma, in verità, lo scetticismo degli interlocutori internazionali rispetto ai “grandi italiani in una piccola Italia” agisce già prima. Il fulgore di singoli elementi della classe dirigente italiana non basta. La Banca d’Italia, storica riserva della Repubblica, anche nei suoi periodi di maggior fulgore non è mai stata considerata in grado di risolvere da sola i problemi del Paese. Quarant’anni fa dissero a Guido Carli: “Serve ben più dei poteri monetari della Banca d’Italia per risolvere i problemi dell’Italia. Altrimenti, il Governatore Carli li avrebbe risolti, o il Governatore Baffi li risolverebbe oggi” (“Why Banks are Unpopular”, The Per Jacobsson Foundation, Basel, 1976).

 

In secondo luogo, la sovranità non è sparita dalla scena. Tutt’altro. Come ha scritto Biagio De Giovanni, “nonostante i colpi di maglio cui è stata sottoposta lungo un secolo, la sovranità non si decide a sgombrare il campo e a togliere il fastidio”. Dani Rodrik vive a Cambridge, Massachusetts, non a Napoli, ma scrive le stesse cose. D’altra parte, viviamo tra fondi sovrani e poteri speciali. Per Kissinger, l’Asia è la regione che ha adottato con il successo più sorprendente il concetto di cui ci vergogniamo, lo Stato sovrano. Oggi affrontiamo il terrore che vuole farsi Stato, mica ONG o città globale. In mezzo a Stati fragili e Stati falliti, il ritorno di espressioni del passato per la ricomposizione dei conflitti (Westfalia, concerto, congresso) non è un vizio diplomatico “passatista”. Davanti al terrore, la difesa della sicurezza della Repubblica, pilastro della sovranità, assume un’importanza centrale. La politica europea vive nell’epoca del ritorno dello Stato, che ci piaccia o no. Il vicedirettore di Policy Network ha invitato la sinistra a rafforzare il discorso sulla sovranità nazionale. In Francia, Macron plaude lo spirito conquistatore degli imprenditori della patria. Il Gruppo di Visegrad dei centro-orientali è il trionfo della risovranizzazione d’Europa. Non emetto giudizi di valore su questo processo, ma invito a riconoscere la realtà. 

 

Le parole chiave di Predieri

 

Se la sovranità non è morta, cosa possiamo fare? Il destino del vincolo interno è esaltare la sovranità nazionale e fare il tifo per una “democrazia sovrana” in cui tutti hanno il diritto di fare i fatti propri, in una sorta di salvinismo permanente? No, ci serve un altro paradigma. Per dare corpo al vincolo interno, giova riprendere certe discussioni degli anni ’90. La guida migliore è “Euro. Poliarchie democratiche e mercati monetari”, libro scritto nel 1998 da un geniale giurista, Alberto Predieri, che andrebbe ripubblicato di corsa. Su Predieri varrebbe la pena di soffermarci a lungo. Quel suo sorprendente scritto del 1998 era legato a una ricerca sul futuro del sistema economico internazionale, organizzata e diretta proprio da Paolo Savona. Predieri legge il ruolo degli Stati europei, e segnatamente dell’Italia, attraverso quattro parole chiave: perdere, trasferire, negoziare, retificare.

 

[**Video_box_2**]Perdere non vuol dire scomparire. Se le notizie sulla morte dello stato sono premature, la risposta non è la chiusura. Lo stato trasferisce, che è diverso da perdere, perché si tratta di un passaggio ad altro che bisogna saper gestire, in cui si deve contare, e per farlo occorre negoziare. Nell’Europa-negoziato, “tutto è scambio, oggetto di dialogo, di contraddittorio, di transazione, piaccia o non piaccia a chi descrive o a chi partecipa. Tutto viene negoziato”. A questo negoziato si deve essere in grado di partecipare, e qui incontriamo la quarta parola chiave: retificare. Retificare è sgombrare il campo dall’illusione dell’autarchia, vedendo il rapporto tra nazionale e internazionale in entrambe le direzioni. Retificare vuol dire che lo stato sopravvive alla globalizzazione trasformandosi da cuscinetto a rete, coordinando e mediando tra interessi nazionali e ambito globale, anche attraverso una limitazione delle sue pretese. Lo stato-rete non si limita alla disintermediazione, ma sa riconnettere. Nello stato-rete, la sovranità serve per farci qualcosa, per costruire alleanze, non per giocare da soli: prendiamo, oggi, i casi delle società europee sulla difesa e le telecomunicazioni. Un esempio caro a Predieri era l’adeguamento normativo italiano rispetto alla sfida europea: gli interventi sull’ambiente, sugli appalti, sulla concorrenza, sui mercati finanziari dovevano implicare un cambiamento complessivo invece di una serie di correzioni à la carte. Il commissariamento è inutile, mentre lo stato-rete nello scacchiere europeo deve sviluppare nuove capacità. Predieri scrive: “La coesione europea viene realizzata non solo con le azioni e le politiche specifiche, ma anche attraverso il rafforzamento degli apparati dei singoli stati per renderli più funzionali ai compiti che l’integrazione comporta e più vicini ai cittadini”. Nel tirare le somme della sua esperienza a Bruxelles, Antonio Giolitti osservò che il sistema produttivo italiano si è adattato meglio alla sfida europea del nostro sistema amministrativo, rimasto “assolutamente insensibile e impermeabile”. Le reti da costruire sono nuove, ma la strada del vincolo interno rimane quella tracciata da Predieri, da perseguire senza illusioni, con capacità amministrativa e con unità di intenti. Non tocca agli altri, ma a noi, come diceva il banchiere centrale Mario Draghi già nel 2011. Dobbiamo perdere, trasferire, negoziare, retificare, per ritrovare noi stessi.

 

Il rasoio di Napolitano

 

Giorgio Napolitano esprime l’ultima grande visione politica dell’Unione europea. Tra un suo discorso del 2012, dedicato alle mappe della politica in Italia e in Europa, e la recente lezione per il premio Spinelli, spicca un’assenza: i partiti politici. Per il Napolitano del 2012 i partiti, partiti europei non solo di nome, erano lo strumento per il vincolo interno (anche se non utilizza il termine di Caracciolo), la pietra angolare dell’appartenenza nazionale al progetto europeo, capace di mostrare l’intreccio tra politiche nazionali e politiche europee. Il Napolitano del 2016 conosce abbastanza l’attuale realtà politica europea, e lo stato di salute semicomatoso di popolari e socialisti, da evitare formule come “grandi famiglie politiche europee”, quando rende omaggio all’uomo che seppe accogliere tra gli indipendenti di sinistra, riducendone la solitudine politica. Ma la più recente lezione di Napolitano, nel rendere omaggio a Spinelli, contiene una gustosa postilla geopolitica sui rapporti tra l’Italia e l’Europa. Possiamo riassumerla così: i problemi non vanno moltiplicati se non ve n’è necessità. Ecco il “rasoio di Napolitano”.

 

In primo luogo, l’ex comunista preferito di Henry Kissinger rigetta l’idea che l’Italia possa fare da sé in Europa legandosi all’unico Vincolo esterno che merita la maiuscola: gli Stati Uniti. Dell’opzione americana nel discorso di Napolitano, l’Interlocutore per eccellenza, non c’è traccia. D’altra parte, la forza vincolante degli Stati Uniti in Europa è limitata, per loro volontà, per l’anno elettorale, per la capacità di affrontare con altri strumenti e su altri livelli le partite di loro interesse (come lo shopping cinese in Italia).

 

In secondo luogo, Napolitano rigetta un percorso dell’Italia distante dal cuore franco-tedesco dell’Europa, soprattutto dal cuore tedesco, e insiste sul legame storico tra i paesi fondatori, soprattutto tra l’Italia e la Germania dei grandi fondatori democristiani. E’ una zampata realista, nell’ideale. Non dimentichiamo che il 2 dicembre il presidente emerito in Senato attaccava in modo molto forte Erdogan e le sue “posizioni repressive all’interno e abbastanza avventurose sul piano internazionale”. Ora, ponendo l’accento soprattutto sul rapporto strategico, politico e culturale con la Germania, Napolitano fa intendere in modo altrettanto forte che, nonostante le “riserve” e le “sollecitazioni critiche”, non possiamo distaccarci da Berlino.

 

 

Alessandro Aresu

Consigliere scientifico di Limes