L'autoriforma unitaria dei contratti spinge i sindacati verso l'uscita di servizio

Emmanuele Massagli
Perché la proposta di Cgil, Cisl e Uil, piuttosto che progettuale, è "contro" il governo

E’ tornata l’unità sindacale. La proposta per “Un moderno sistema di relazioni industriali” presentata ieri a Roma da Cgil, Cisl e Uil la sancisce. Ne svela però anche la principale caratteristica di fondo: è una unità “contro”, piuttosto che progettuale. In particolare contro il governo, che non ha mai nascosto la sua volontà di disintermediazione delle relazioni sociali, da realizzarsi con nuove regole sullo sciopero, una legge sulla rappresentanza e l’istituzione del salario minimo legale. Di fronte al pericolo imminente, la “triplice” sindacale è riuscita a riconquistare una linea condivisa.

 

L’esito di questo sforzo, ovvero il documento di riforma delle relazioni industriali, è però tanto significativo endosindacalmente, quanto inefficace in termini pratici. Innanzitutto perché i contenuti poco dialogano con le proposte degli industriali, con i quali sarebbe necessario approdare a un  accordo ai fini di scongiurare il minacciato intervento del governo. In secondo luogo perché mancano quegli elementi di concreta modernità che tanto erano attesi dagli addetti ai lavori. Il necessario compromesso ha certamente annacquato l’innovatività dell’accordo. Non mancano aspetti positivi: l’interesse verso la partecipazione dei lavoratori, l’importanza assegnata alla bilateralità, la scommessa sul welfare contrattuale, la coscienza della centralità dell’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, della formazione, riconosciuta come diritto soggettivo del lavoratore, arma di difesa contro la fluttuazione del mercato del lavoro causata da sistemi produttivi in continua evoluzione tecnologica.

 

Gli stessi passi avanti non si osservano però sui contenuti principali del documento, ovvero le regole, gli assetti contrattuali e il salario. Su questi argomenti il sindacato non si è mosso molto rispetto a quanto condiviso nel 1993 nella “carta costituzionale delle relazioni industriali” (accordo 23 luglio 1993). Il contratto nazionale dovrebbe farla ancora da protagonista, continuando ad essere il “regolatore salariale” che decide se e cosa delegare al secondo livello. Il condizionale è d’obbligo: indipendentemente dai propositi del sindacato già da oltre un decennio non è così e la crisi economica ha enfatizzato un processo di decentralizzazione delle relazioni di lavoro che va attuandosi spontaneamente, senza la regia delle parti sociali. Appare molto più cosciente di questa realtà (e più moderna nelle soluzioni tecniche proposte) la piattaforma per il rinnovo contrattuale di Federmeccanica, che è da leggersi in dialettica al documento sindacale.  Il dato più preoccupante, in questo senso, è la distanza che pare esserci tra il sindacato e il sistema produttivo italiano, sempre più insofferente a contratti collettivi pervasivi e di dettaglio, in questa particolare fase del diritto del lavoro addirittura meno flessibili delle norme di legge.

 

[**Video_box_2**]Particolarmente stupefacente, infine, è l’esplicita apertura all’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, ovvero l’accettazione dell’intrusione dello stato, della legge, delle procure nell’autonomia collettiva. Per allontanare il fantasma del salario minimo legale mediante l’esigibilità universale (“erga omnes”) dei minimi contrattuali, i sindacati accettano di essere legittimati dal legislatore e non dalle proprie azioni, dalla capacità di progettazione sociale, mobilitazione delle persone e, soprattutto, contrattazione (non è un caso che molti rinnovi nazionali siano in stallo da anni).

 

Insomma, se il governo asseconderà la richiesta della “triplice” (forse non aspettava altro) improvvisamente il sindacato italiano perderà uno dei suoi connotati più originali, aprendo una nuova fase della sua storia.

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