Perché sui crac bancari è inutile lamentare il vantaggio tedesco

Carlo Milani
La Germania ha aiutato banche già pubbliche, meglio non prendere esempio. L'Abi in Italia faccia piuttosto autocritica sui ritardi nel mettere un freno alle Fondazioni e nel battersi per una bad bank
Uno dei temi tra i più battuti sulla questione dei salvataggi bancari è la gestione degli aiuti di stato da parte della Commissione europea. Dopo la Banca d’Italia, anche l’Associazione bancaria italiana (Abi) ha voluto rimarcare il differente trattamento tra le banche tedesche e quelle italiane. Le prime hanno ottenuto 64 miliardi di euro di aiuti sotto forma di capitale, contro gli 8 miliardi dell’Italia. Alcuni aspetti di questa vicenda tendono però a essere sottaciuti.


Il primo elemento riguarda il fatto che i capitali messi a disposizione dal governo tedesco sono andati per buona parte a ricapitalizzare banche pubbliche territoriali, le Landesbank. Di fatto quindi lo stato tedesco, essendo proprietario di questi istituti, è dovuto intervenire per evitare di subire perdite ancor più alte nel caso del loro conclamato dissesto (analoga considerazione può essere fatta con Banif, la banca portoghese recentemente salvata con soldi pubblici). Ciò evidenzia come per lo stato entrare nel capitale di banche commerciali non sia una buona idea, e questo dovrebbe servire da monito alla Cassa Depositi e Prestiti per evitare di avventurarsi nell’attività creditizia.


Un secondo aspetto, non messo sufficientemente in evidenza, è il fatto che sia l’Abi che Banca d’Italia si sono un po’ troppo cullate sulla diversità della nostra industria bancaria rispetto agli altri paesi coinvolti dalla crisi finanziaria. Avere un’attività bancaria concentrata sul credito, piuttosto che sulla finanza speculativa, ci ha permesso di subire minori contraccolpi dal default di Lehman Brothers del 2008. Le politiche del credito in alcuni casi troppo spregiudicate, come i recenti casi hanno ben messo in evidenza, hanno però ben presto determinato un’inesorabile crescita dei finanziamenti insoluti.


Il sistema bancario non ha tuttavia riconosciuto rapidamente il problema e, anzi, lo ha con forza rigettato. Basta andarsi a rileggere le interviste rilasciate da Giovanni Sabatini, direttore dall’Abi, quando, nel 2013, affermava che non c’era bisogno né di ricapitalizzare le banche italiane né di introdurre una bad bank. Se le carenze del nostro sistema fossero state riconosciute per tempo ci sarebbero stati molti più margini di manovra per un intervento con fondi pubblici e con risorse del Fondo interbancario. Le norme sugli aiuti di Stato sono state infatti modificate e irrigidite proprio nel corso del 2013. Per troppo tempo invece ci si è nascosti dietro il fatto che le più alte sofferenze osservate in Italia fossero il semplice risultato statistico di una maggiore severità della Banca d’Italia nei criteri di valutazione. Con il passaggio della vigilanza unica alla Banca centrale europea, questa tesi si è però rilevata priva di fondamento. Se l’Abi, insieme alla Banca d’Italia e al governo Monti, avessero puntato alla creazione di una bad bank, già a partire dal 2012/2013, adesso l’industria bancaria domestica sarebbe molto più solida e al riparo dal crollo di fiducia che sta attualmente vivendo. Per uscire dall’angolo in cui si è andata a cacciare bisognerebbe in primo luogo ammettere gli errori compiuti e correre a trovare i giusti correttivi.

 

[**Video_box_2**]Piuttosto che rivolgere le critiche alla Commissione andrebbe, con responsabilità, messa in atto una politica di pulizia dei bilanci utilizzando, ad esempio, gli utili ottenuti grazie alla politica monetaria espansiva condotta dalla Bce. Inoltre, quello che i dissesti bancari hanno insegnato è che il tema della governance è fondamentale. Le Fondazioni bancarie, dal caso Mps a Banca Marche, passando per Tercas e Carife, hanno avuto un ruolo chiave, avendo nominato e influenzato i manager che poi hanno determinato le crisi bancarie. Nonostante l’autoregolamentazione, varata in comune accordo con il ministero dell'Economia a inizio del 2015, le Fondazioni hanno ancora un’elevata influenza che andrebbe invece progressivamente eliminata.

 

Carlo Milani è economista del Centro Europa Ricerche (Cer)