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Perché il prezzo del petrolio va sempre più giù: cosa è successo al vertice Opec

Gabriele Moccia

L'unica scelta che oggi l'Opec è in grado di prendere è quella di rinviare le scelte al prossimo vertice semestrale di giugno. La conferma del libico Al Badri come segretario generale ne è la conferma.

Vienna. Dallo scarno comunicato stampa col quale venerdì scorso l’Opec comunicava di non aumentare né diminuire il tetto alla produzione, imposto ormai più di un anno fa, è possibile capire le serie difficoltà che sta vivendo il cartello, forse destinato ad esaurire il proprio ruolo nei prossimi anni, o addirittura mesi. Sembrano passati i tempi in cui l’Opec rappresentava il vero braccio armato e compatto delle istanze delle nazioni mediorientali, un cannone economico puntato contro le democrazie occidentali per ottenere contropartite politiche. Al contrario, l’unica scelta che oggi l’organizzazione fondata nel 1960 è in grado di prendere è quella di rinviare  le scelte al prossimo vertice semestrale di giugno. Dal punto di vista gestionale, dopo lo scandalo tangenti e corruzione che ha coinvolto la storica presidente, lady Opec, come veniva definita  l’ex ministro del Petrolio nigeriano Diezani Alison-Madueke, la decisione di confermare il libico Al Badri quale segretario generale del cartello per altri sette mesi è il segnale che i sauditi sono riusciti a prendere tempo, a guadagnare mesi preziosi per capire se hanno ancora la forza di guidare i processi.

 

Badri è diventato uno dei principali alleati di Riad, colui che ha preso i colpi al posto dei sauditi nel cercare di mantenere unanimi gli sforzi di mantenimento del tetto alla produzione, nel tentativo di portare avanti una guerra incerta allo shale gas (gas di scisto) e al tight oil (petrolio non convenzionale) americano. Da potente ministro e funzionario di alto rango della stagione politica del colonnello Gheddafi, Badri è ora un civil servant senza patria, la “sua” National Oil Corporation (Noc) – la compagnia petrolifera libica – è in mano alla schizofrenia dell’attuale conformazione del potere in Libia, smembrata dalle esigenze energetiche opposte di Tripoli e Tobruk. Per questo, per continuare la propria carriera il libico ha trovato rifugio sotto l’ala protettiva del ministro del Petrolio saudita, Ali Naimi, che lo vuole sullo scranno di segretario generale per cercare di risolvere lo stallo più difficile che l’organizzazione abbia dovuto affrontare. Nel gergo criptico della diplomazia energetica tutto ciò si traduce in due o tre concetti espressi nel recente comunicato dell’Opec: il cartello si impegnerà in un accurato monitoraggio dei livelli di produzione al di fuori dell’Opec. Ovvero, Badri,  Naimi e l’asse saudita avranno sei mesi di tempo per convincere principalmente la Russia, poi la Cina (e chissà forse anche gli Stati Uniti?) a una diminuzione concordata dei livelli di produzione nel tentativo di riportare in alto i prezzi del greggio. Che la sfida sia quasi impossibile è dimostrato da una serie di fattori che riguardano principalmente un attore esterno che anche nell’ultimo summit Opec di Vienna ha pesato parecchio: la Russia.

 

Si fa sempre più intensa l’idea che il Cremlino stia portando avanti una strategia tesa ad affossare l’Opec. Secondo Dalan McEndree, ricercatore del George C. Marshall European Center for Security Studies, le operazioni militari russe in Siria a supporto del presidente Bashar el Assad e il tentativo di usare un’alleanza con la Repubblica islamica quale cavallo di Troia per chiudere definitivamente i conti con il cartello, fanno parte dello stesso disegno che Putin avanza per il medio oriente. Per McEndree il fatto che Mosca sia ritornata ad affacciarsi prepotentemente sul Mediterraneo e sul medio oriente è un fattore che aiuta a risolvere alcuni problemi dell’industria energetica russa e fornisce un potenziale mercato di sbocco alternativo a quello europeo. Coordinandosi con l’Iran (e con un Iraq a trazione sciita), la Russia potrebbe mettere in luce le criticità dei “choke point” (strozzature) del traffico globale di gas – lo stretto di Hormuz, il canale di Suez, ecc. – e al contrario fare leva sulla sicurezza quasi totale dei propri gasdotti terrestri, sostiene il ricercatore. Ecco che l’Opec diventa allora un problema serio. Non è un caso che in questi mesi Putin abbia dato ordine di intensificare gli sforzi per creare una fronda anti saudita dentro l’Opec.

 

[**Video_box_2**]In questi mesi gli incontri tra i vertici di Mosca e Teheran si sono susseguiti in maniera sempre più intensa. Lo stesso Putin ha incontrato la Guida suprema, Ali Khamenei, e i suoi più stretti collaboratori. Ma a livello più tecnico, il negoziato è affidato al ministro dell’Energia russo Alexander Novak, che ha messo in campo anche l’esperienza russa nel settore della tecnologia nucleare per assicurare il blocco russo dentro l’Opec. Blocco che Putin ha costruito anche grazie alla collaborazione con il Venezuela e l’Algeria, altri paesi chiave del cartello. Una possibile ulteriore minaccia per Riad e i suoi alleati potrebbe arrivare dallo sviluppo delle relazioni energetiche tra Russia, Iran e Cina. L’Opec sta sviluppando la sua strategia produttiva puntando molto sul mercato asiatico e sui suoi tassi di crescita della domanda petrolifera. Ma per la seconda volta nel 2015, lo scorso ottobre Mosca ha spodestato l’Arabia Saudita, piazzandosi al primo posto quale paese esportatore di petrolio verso Pechino. “La principale battaglia per fornire la Cina di greggio è tra la Russia e i sauditi”, afferma l’analista Gao Jian. Insomma, quella che emerge è una vera manovra di accerchiamento che potrebbe presto risultare esiziale per il cartello dell’Opec.

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