Mark Zuckerberg, il 31enne fondatore di Facebook

Il welfare state ha sopito la filantropia in Italia. Ora si cambia. Parla Zamagni

Marco Valerio Lo Prete
L’impresa negli Stati Uniti ha un obbligo sociale, non giuridico, di restituire alla società utili e profitti accumulati grazie alla società stessa

Roma. “I trenta sono i nuovi settanta”, ha detto Michael Bloomberg, a capo dell’omonimo colosso mediatico e già sindaco di New York, per commentare la scelta di Mark Zuckerberg, il 31enne fondatore di Facebook che ha celebrato la nascita della figlia annunciando che donerà nel tempo il 99 per cento del suo investimento azionario nel social network, per un valore attuale di 45 miliardi di dollari. Anche Bloomberg ha un degno pedigree di filantropo, nel 2013 ha elargito la più corposa singola donazione alla sua vecchia università, la Johns Hopkins di Baltimora, per un ammontare di 350 milioni di dollari, ma oggi sottolinea un cambiamento generazionale. “Ciò detto, la decisione di Zuckerberg non è una pagina radicalmente nuova nella tradizione americana – dice al Foglio Stefano Zamagni, economista all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins – L’acciaiere Andrew Carnegie, all’inizio del ’900, non lasciò praticamente nulla in eredità ai figli ma fondò ospedali, università e lasciò un libro intitolato ‘Il Vangelo della ricchezza’”. Secondo Zamagni, Zuckerberg “rispetta la tradizione americana e il restitution principle che le è connaturato. L’impresa cioè ha un obbligo sociale, non giuridico, di restituire alla società utili e profitti accumulati grazie alla società stessa. Da qui nasce l’elevatissimo tasso di filantropia americano”.  

 

L’Europa, al “principio della restituzione”, ha preferito per decenni il “principio della redistribuzione”, osserva Zamagni, autore per il Mulino di svariati saggi (l’ultimo s’intitola “L’economia civile”): “Il nostro si chiama welfare state proprio perché allo stato è appaltato il ruolo di principale redistributore della ricchezza. Tutto ruota attorno a una tassazione mediamente elevata, e fino a tempi non lontani questo principio aveva dato risultati accettabili. Da un quarto di secolo le cose sono cambiate, con un’accelerazione poi dall’inizio dell’ultima crisi”. Da una parte i debiti pubblici in aumento, dall’altra la conclamata inefficienza amministrativa nella gestione delle risorse pubbliche: secondo Zamagni è oramai insufficiente rifarsi al solo principio della redistribuzione. Cultura e pratica, nel frattempo, hanno scavato in profondità tra i due lati dell’Atlantico. La Charities Aid Foundation – analizzando i dati aggregati di risorse finanziarie per la filantropia, aiuti agli sconosciuti e tempo speso in volontariato – colloca gli Stati Uniti al secondo posto della classifica mondiale del suo “Charitable giving index”, solo dietro il Myanmar (dove la fede buddista spiega l’elevato tasso filantropico), poi vengono tutti i paesi anglosassoni. L’Italia è al 72esimo posto. “Non è questione di una minore generosità – insiste Zamagni – Nel nostro paese il tasso di adesione a iniziative di volontariato è perfino più elevato che in America”. Piuttosto, abbiamo ceduto allo stato molta parte del nostro spirito filantropico: “Se allo stato restituisco in tasse quasi la metà del mio reddito, è normale che mi senta anche appagato con la coscienza”. Tuttavia per l’economista oggi “siamo in mezzo al guado”, tra lo stato redistributore che non funziona più come prima, un regime fiscale che tende a penalizzare le donazioni e un discorso pubblico non ancora sufficientemente accogliente per iniziative à la Zuckerberg. “Ora però ci accorgiamo che, complice una crescita anemica dell’economia, stanno diminuendo le risorse deputate a sanità, pensioni e altri aspetti della nostra vita cui non vogliamo rinunciare. Gli esperimenti di welfare aziendale, avviati seriamente quindici anni fa, sono un passo verso una direzione diversa, una convergenza sul modello americano”. Non mancano i problemi legati a tale transizione: come garantire una qualche forma di universalismo del welfare, per esempio? “Poi il problema della governance degli strumenti giuridici, in genere fondazioni, con cui i filantropi gestiscono la loro ricchezza”, dice Zamagni che in Italia è presidente della Fondazione Dono per l’Italia, un prototipo nel settore.

 

[**Video_box_2**]“Svolgiamo un lavoro di intermediazione. A noi si rivolgono soprattutto i piccoli e medi donatori, che hanno un po’ di risorse ma non in quantità sufficiente a mettere su una struttura ad hoc per gestirle. In base alle loro indicazioni, noi garantiamo l’efficienza per raggiungere l’obiettivo”. Perché se la filantropia in America è così sviluppata, secondo Zamagni, ciò dipende anche dal fatto che le fondazioni coinvolte sono “molto rigorose nei loro statuti, perfino più della nostra Pubblica amministrazione”. “I soldi non vanno all’amico dell’amico, per intenderci, ma sono distribuiti in base a parametri che misurano l’impatto sociale, decisi una volta per tutte e a cui poi bisogna sottostare”. L’economista nota a questo proposito un ammodernamento in corso nelle fondazioni bancarie italiane, “consentito dalla riforma che le ha spinte ad abbandonare la presa sugli istituti di credito. Ora poi che non c’è più lo stato a ripianare eventuali errori, la responsabilizzazione degli amministratori cresce”. E la filantropia diventa più efficiente. Scopriamo l’America? “Non direi. Ricordo sempre che i primi ospedali li costruirono nel 1200 nel nostro paese gli ordini religiosi, e che il Duomo di Firenze lo fecero costruire i lanaioli, cioè gli imprenditori del tempo. Occorre sussidiarietà circolare”. Dal welfare state al social welfare, senza passare per Zuckerberg.

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