Mark Zuckerberg (foto LaPresse)

Perché la mossa del patron di Facebook prende a schiaffi la dottrina Piketty

Sergio Soave
L’annuncio di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, che intende festeggiare la nascita della sua prima figlia impegnandosi a donare il 99 per cento delle azioni della società in suo possesso, si presta a qualche considerazione interessante.

L’annuncio di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, che intende festeggiare la nascita della sua prima figlia impegnandosi a donare il 99 per cento delle azioni della società in suo possesso, si presta a qualche considerazione interessante. Mark Zuckerberg – come già il fondatore di Microsoft, Bill Gates, e il fondatore di Apple, Steve Jobs, prematuramente scomparso – seppure in forme diverse, esprime l’interesse di persone che, ottenuto un immenso successo nel mondo degli affari con idee innovative, vogliono occuparsi anche di chi è rimasto escluso o emarginato per le più diverse ragioni. Non è un semplice ricorso alla beneficenza, ma una specie di discorso politico, una scelta di utilizzare immensi patrimoni personali per promuovere investimenti sociali in una prospettiva di lungo termine, a differenza di quello che spesso fanno i governi e il sistema finanziario, attanagliati dalle scadenze elettorali o legati agli esiti delle trimestrali di cassa.

 

Viene da paragonare questa volontà di combattere direttamente e personalmente le diseguaglianze che viene dai vertici del nuovo capitalismo digitale e innovativo con le ricette vendicative propagandate da Thomas Piketty nel suo fortunato e ponderoso saggio su “Il capitale nel XXI secolo”.

 

Piketty sostiene che la distribuzione della ricchezza è rimasta immutata da prima della Rivoluzione francese a oggi, con una visione statistica piuttosto elementare (non gli piacciono gli algoritmi) e una concezione sociale del tutto statica. I rentiers dei tempi di Luigi XIV non si differenziano dai geniali innovatori di questi ultimi decenni, il fatto che la ricchezza ereditata senza alcun contributo creativo sia diversa da quella costruita su idee che cambiano il modo di vivere di miliardi di persone non lo sfiora nemmeno. La risposta di Zuckerberg è assolutamente indiretta, anche perché non si sa nemmeno se conosca le elaborazioni dello storico francese. Chi ha avuto l’abilità e la fortuna di costruire dal nulla grandi realtà aziendali e immensi patrimoni sente la responsabilità di far vivere i propri figli in un mondo migliore. Non vuole offrire (e in un certo modo imporre) ai suoi eredi una funzione e una collocazione già definita, non farà mancare loro nulla, naturalmente, nemmeno la libertà e la responsabilità di farsi una loro strada nella vita.

 

E’ una lezione di responsabilità che viene dal capitalismo, o meglio da uno dei capitalismi possibili e reali, che implica la passione di voler proporre e costruire, a proprie spese e a proprio rischio, prospettive nuove in campi decisivi, dalla medicina alla scuola. E’ iniziativa privata? E’ impiego dei profitti? Certo, ma è anche un impegno contro le diseguaglianze assai più fecondo di quello di chi ragiona soltanto di tassazioni e di redistribuzioni che non fanno crescere la società, che non immettono innovazione e rischio, in sostanza che si appiattiscono su uno statalismo burocratico considerato lo strumento essenziale di una impostazione egualitaria senza crescita.

 

[**Video_box_2**]Naturalmente anche Zuckerberg può sbagliare, ma fa capire che generazioni diverse di capitalisti e di capitalismi di diversa origine si susseguono apportando innovazioni e trasformazioni, in base a un’etica dell’impegno individuale e della responsabilità sociale. E’ proprio questo elemento dinamico, multiforme, persino contraddittorio, del capitalismo che sfugge alla visione di Piketty, tutto teso a dimostrare che non è cambiato niente negli ultimi tre secoli e che per giunta pensa che il cambiamento necessario può venire da burocrazie pubbliche intente a redistribuire una ricchezza che non ha più il lievito dell’iniziativa che la fa crescere. Il capitalismo, dice Piketty, produce solo automaticamente diseguaglianze insostenibili e arbitrarie. Secondo l’economista francese debbono essere messi in atto strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale prendano il controllo del capitalismo. La logica del controllo, definito democratico e in realtà statalista, contro quella della innovazione della creatività e della responsabilità personale. Non è difficile scegliere per chi fare il tifo.