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C'è un giudice a Bellinzona, era ovvio

Alberto Brambilla
Un tribunale svizzero azzera i piani di Renzi (e Guerra) per l’Ilva. I giudici svizzeri hanno gettato una bomba nel meccanismo che il governo, di concerto con la procura di Milano, aveva congegnato per recuperare i denari congelati alla famiglia Riva coi quali salvarla dal tracollo totale.

I giudici svizzeri hanno gettato una bomba nel meccanismo che il governo, di concerto con la procura di Milano, aveva congegnato per recuperare i denari congelati alla famiglia Riva coi quali salvare l’Ilva dal tracollo totale. Il meccanismo era un’invenzione ardita ma fallace come il Foglio rivelò nel maggio scorso. Martedì il tribunale di Bellinzona ha riconosciuto vizi di forma e banali violazioni del diritto nell’istanza della procura di Zurigo, attivata da quella di Milano, negando quindi la richiesta di sequestro dei famosi 1,2 miliardi dei Riva, ex proprietari del gruppo Ilva, accusati di truffa dalla procura milanese in un’indagine aperta da tre anni. Vizi di forma nelle rogatorie, richiesta di sequestro senza processo né ovviamente sentenza, assenza totale da parte dell’Italia di una garanzia per le persone coinvolte di rivedere i loro soldi se dichiarate infine innocenti. E’ una mina per Renzi che dovrà rivedere la legge di Stabilità dove si parla di “anticipazione finanziaria sui fondi raccolti a seguito dell’emissione del prestito obbligazionario…”.

 

Lo stato in sostanza vorrebbe garantire il denaro che avrebbe dovuto essere recuperato dalla Svizzera per poi essere impiegato per sottoscrivere obbligazioni a favore di Ilva; è questo in sintesi il meccanismo che si è rotto: un prestito-ponte che ora è un ponte sul nulla e anzi se permane rischia di essere considerato un aiuto di stato tout court da Bruxelles. Il governo ha sbagliato: ha espropriato i Riva dalla gestione senza coinvolgerli nel risanamento e né metterli alla prova – avevano detto di avere un piano e di essere pronti a finanziarlo – e poi ha messo a capo dell’azienda persone a digiuno di siderurgia, in primis Andrea Guerra, per poi moltiplicare le cariche dirigenziali perseverando nello stesso errore fatale. Il governo ha continuato a dire pubblicamente che i soldi sarebbero arrivati a breve: stavano sempre per arrivare ma non arrivavano mai. Guerra aveva dato l’impressione di essere moderatamente convinto di riuscire a farcela quando, prima d’andare a Eataly, ringraziò i magistrati italiani per il lavoro svolto. Il destinatario dell’elogio dell’ex manager del lusso era il pm Francesco Greco, “deus ex machina” del meccanismo tradotto in decreto che avrebbe dovuto scardinare lo scrigno dei Riva. Ecco i risultati. Meglio occuparsi dei contraccolpi su Taranto e dintorni a questo punto (basso) nella storia dell’Ilva.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.