Il presidente iraniano Hassan Rohani (foto LaPresse)

I rischi dell'impazienza italiana nel fare business con l'Iran

Francesco Galietti
Gli attentati di Parigi e la cancellazione del viaggio del presidente iraniano Hassan Rohani in Italia e Francia non hanno ottenuto l’effetto di rallentare la diplomazia politica e religiosa degli equilibri di potere in Medio Oriente.

Gli attentati di Parigi e la cancellazione del viaggio del presidente iraniano Hassan Rohani in Italia e Francia con ogni probabilità non hanno ottenuto l’effetto di rallentare il delicato esercizio di diplomazia politica e religiosa in corso durante una fase di ricomposizione degli equilibri di potere in Medio Oriente.

 

Come prevedibile, non mancano i commenti sul flusso commerciale Roma-Teheran. Diverse analisi puntano inevitabilmente il dito sul complesso di sanzioni. Sanzioni che la recente riapertura dei rapporti tra Stati Uniti e Iran ha allentato, ma solo parzialmente. Le sanzioni non nucleari sono tutt’ora in essere. Ha infatti fatto scuola “Treasury’s wars”, di Juan Zarate. Zarate è uno dei massimi teorici del raffinato sistema sanzionatorio messo a punto dal Treasury americano, e nella comunità degli analisti di rischio politico è noto con il soprannome di Financial Batman. Quello statunitense è un sistema affinato nel tempo che postula il rigoroso allineamento tra Washington e i suoi alleati. Si tratta di un sofisticato gioco in cui ai tradizionali attori governativi a stelle e strisce si affiancano organi giudiziari secondo quella che la dottrina geopolitica definisce lawfare, la giustizia transfrontaliera come strumento bellico. Un aspetto che è rimasto in penombra è invece il possibile nesso tra gli investimenti diretti esteri e il sistema sanzionatorio. Più in dettaglio: quanto sono affidabili per Washington i paesi occidentali che sono robusti attrattori di investimenti diretti da parte di paesi sottoposti a regimi sanzionatori? La domanda è particolarmente pertinente nel caso dell’Italia. Il cui governo, va ricordato, si è trovato in non poco imbarazzo quando la contrapposizione tra Russia e Stati Uniti sull’Ucraina ha raggiunto il punto di incandescenza. Non più tardi del giugno di quest’anno, il Dipartimento di Stato americano in occasione di un vertice G7 preparò un voluminoso dossier rivolto proprio alla delegazione italiana, per sottolineare che le contro-sanzioni con cui la Russia ha sostituito le proprie importazioni, le fluttuazioni del petrolio e del rublo, e la debolezza dell’economia russa erano responsabili dell’affievolirsi del link economico. Washington era allarmata dalle continue sollecitazioni a cui Palazzo Chigi era sottoposta da numerose imprese tricolori, incapacitate a esportare i propri beni in Russia.

 

A complicare il quadro non contribuisce il solo traffico commerciale. Non va infatti dimenticato il massiccio flusso di acquisizioni societarie russe in Italia (Lukoil-Erg, Saras-Rosneft, Pirelli-Rosneft, Lucchini-Serverstal giusto per citarne alcune), caratterizzato in numerosi casi da investimenti in aziende human intensive, ovvero che danno impiego a molti italiani. E nemmeno si può escludere che il passaggio di Saipem al Fondo Strategico Italiano, “capitale paziente” tricolore, sia il preludio a un’ennesima cessione ad acquirenti russi nel futuro. La questione è di tutta evidenza: a mettere in difficoltà Palazzo Chigi rispetto a Washington non è solo lo spettro di magazzini pieni di forme di parmigiano invendute (il flusso commerciale), ma anche la prospettiva di danneggiare i lavoratori italiani di società passate sotto controllo russo. 

 

[**Video_box_2**]Si prenda a questo punto l’Iran, i cui vertici politici non fanno mistero di voler acquisire tecnologie occidentali per sopperire a carenze croniche della propria economia (come la chimica e le tecnologie di raffinazione). E’ indubitabile che alcune di queste tecnologie in Italia siano non solo presenti ma anche disponibili a condizioni appetibili, dal momento che gli attuali assetti proprietari non paiono disposti a sostenerne i significativi investimenti. Quanto è corretto ritenere che lo shopping iraniano avvenga con il placet di Washington? La questione è delicata. Da un lato è indubitabile che l’Amministrazione Obama abbia compiuto un notevole sforzo per riallacciare canali diplomatici con Teheran, e quest’ultima è in prima fila nella lotta all’Isis. Dall’altro lato, tuttavia, le sanzioni non nucleari rimangono in piedi e improvvisi cambi di rotta non possono certamente essere esclusi. Roma ha tutto il diritto di proporre aziende italiane a Teheran, ma come pensa di cautelarsi contro l’estrema volatilità nei rapporti tra Washington e Teheran? Dopotutto, sempre pensando alle analogie nei rapporti con la Russia, anche nel 2002 a Pratica di Mare i rapporti tra Russia e Stati Uniti erano (quasi) idilliaci. Sappiamo fin troppo bene cosa è accaduto dopo.

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