Cosa fa muovere il carrello? Dietro alle scelte di spesa e di consumo non ci sono soltanto le politiche fiscali o i giudizi delle famiglie sullo stato dell’economia. Geopolitica e tic ideologici hanno

Il consumatore è politico

Marco Valerio Lo Prete
Reddito disponibile, politiche fiscali del governo nazionale (in atto o in potenza che siano), giudizio personale sulla situazione economica del proprio nucleo famigliare e del proprio paese. Solitamente è partendo da queste variabili che il consumatore che è in ciascuno di noi indirizza le proprie scelte.

Reddito disponibile, politiche fiscali del governo nazionale (in atto o in potenza che siano), giudizio personale sulla situazione economica del proprio nucleo famigliare e del proprio paese. Solitamente è partendo da queste variabili che il consumatore che è in ciascuno di noi indirizza le proprie scelte. O almeno è soprattutto così che ce lo descrivono solitamente la maggior parte degli economisti e dei sondaggisti. Adesso però Nielsen, in un’analisi internazionale che abbiamo anticipato ieri mattina sul Foglio.it, ci ricorda che il consumatore è anche un animale politico. Specialmente in Europa, in questa fase storica.

 

La multinazionale americana Nielsen, nata nel 1964 dalla fusione di due case editrici olandesi (De Spaarnestad e Cebema), ha appena pubblicato il “Global consumer confidence report” dedicato al terzo trimestre del 2015, con interviste perlopiù telematiche realizzate in 61 paesi del pianeta. Il risultato maggiormente evidenziato dalla società è che “la fiducia globale dei consumatori è aumentata di tre punti nel terzo trimestre del 2015, arrivando a 99, il livello più alto che si sia mai registrato dal 2006”. Nella scala utilizzata da Nielsen, 100 è il valore che indica il discrimine tra il pessimismo e l’ottimismo. La Corea del sud, per esempio, è il paese dei consumatori apparentemente più pessimisti (49), l’India il paese dei più ottimisti (131). I numeri assoluti dicono poco, ovvio, contano di più le tendenze. Da cui emerge che “gli Stati Uniti, tra luglio e settembre 2015, fanno segnare l’aumento più significativo di fiducia dei consumatori, con 18 punti in più – si legge nel rapporto – Così il paese raggiunge il livello di fiducia più alto mai registrato da 10 anni a questa parte”. La situazione europea è meno esaltante e meno monolitica: i livelli di fiducia dei consumatori sono cresciuti in due terzi dei paesi del continente. Svetta il Regno Unito che supera quota 100 per la prima volta dal 2006; vivere nel paese che negli ultimi due anni è cresciuto più rapidamente di tutti gli altri del G7, d’altronde, vorrà pur dire qualcosa per il cittadino medio. “La fiducia dei consumatori italiani aumenta – più 4 punti, fino a 57, ndr) – torna al livello dell’inizio del 2015, cioè il risultato migliore dal 2011”, dice Giovanni Fantasia di Nielsen, osservando dunque che il punto più basso coincise con l’apice della crisi finanziaria, quando Lady Spread impazzava.
In flessione invece la fiducia dei consumatori cinesi che comunque, pur a fronte delle turbolenze finanziarie dei mesi estivi, rimane a livelli elevati (106 punti, uno in meno dal secondo trimestre). Per sintetizzare, ecco le parole del sito del Wall Street Journal: “I consumatori americani sono piuttosto positivi riguardo lo stato dell’economia. Così anche i cinesi. Ma gli europei sono ansiosi”. Ed è sul “perché” di quest’ansia che i ricercatori di Nielsen arrivano a conclusioni più originali.

 

In Europa, infatti, a tarpare le ali dei consumatori sarebbero sempre di più le paure originate dal terrorismo e dall’immigrazione. Se la preoccupazione per la congiuntura e la sicurezza del posto di lavoro nei prossimi sei mesi sono ancora i fattori che incidono maggiormente (per il 30 e il 22 per cento degli intervistati), ecco che il terrorismo allarma il 18 per cento degli europei, il 7 per cento in più rispetto alla prima metà dell’anno. Nemmeno in medio oriente il terrorismo è così temuto, se si fa eccezione per la Turchia, dove il rischio terrorismo condiziona il 58 per cento dei consumatori, il 37 per cento in più del trimestre precedente. In Francia e in Germania il terrorismo è in cima ai pensieri del 26 e del 23 per cento dei consumatori. Nel paese della cancelliera Merkel c’è stato il balzo più significativo nel condizionamento dovuto al pericolo terroristico. Un caso? Non esattamente; c’entra l’imponente afflusso di rifugiati siriani (e non solo) che secondo alcuni potrebbe perfino terremotare il solitamente stabile panorama politico tedesco. “C’è stato un forte aumento della preoccupazione dovuta a terrorismo, guerra e immigrazione in molti paesi europei e in alcuni paesi del medioriente – ha detto Louise Keely, vicepresidente di Nielsen – Riteniamo che ciò in Europa sia legato alla crisi dei rifugiati e in generale a una maggiore consapevolezza e sensibilità riguardo le dinamiche in corso in medioriente e su come queste possano avere un impatto in Europa”. Detto in altre parole: l’affastellarsi di vertici europei un po’ inconcludenti, di dichiarazioni pubbliche stentoree da parte dei nostri leader politici seguite da poche decisioni operative tese a stabilizzare i focolai di guerra e disperazione ai nostri confini, non irritano solamente i palati fini che si occupano di geopolitica e relazioni internazionali, ma finiscono per influenzare l’europeo qualunque che ogni settimana va a fare la spesa, pianifica acquisti grandi o piccoli. E’ ormai senso comune che la mancata stabilizzazione della Siria o della Libia, per esempio, avranno eccome conseguenze sulla nostra vita quotidiana, vuoi attraverso l’instabilità politica generata nei nostri confini, vuoi tramite la pressione sulle finanze pubbliche (nuove spese chiamano nuove tasse), vuoi più in generale via l’incertezza che incombe sul futuro.

 

[**Video_box_2**]Il consumatore europeo, dunque, è quello che oggi nel mondo più risente dell’influenza di fattori apparentemente poco “economici” come terrorismo e immigrazione. Ma in prospettiva c’è anche un altro fenomeno politico-culturale che ha impiantato profonde radici nel nostro continente e che alla lunga può frenarne l’economia: parliamo del “politicamente corretto”. In un recente intervento pubblico a Nuova Delhi, il governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan, ha detto infatti che “un’eccessiva political correctness rallenta il progresso almeno quanto l’assoluta mancanza di rispetto verso qualunque regola”. Rajan, a lungo economista all’Università di Chicago in America, oltre a decine di importanti contributi accademici, ha scritto insieme all’ex collega e amico Luigi Zingales il libro “Salvare il capitalismo dai capitalisti”. Oggi sembra impegnato a salvare il mercato delle idee di quanti – in nome del rispetto di minoranze e tabù – vorrebbero impoverire quello stesso mercato. La “concorrenza”, secondo Rajan, è il primo ingrediente di ogni “fabbrica delle idee” che si rispetti. Il secondo ingrediente essenziale si chiama “protezione”; non quella applicata a “idee e tradizioni specifiche”, ma quella garantita “al diritto di sfidare e mettere in dubbio, al diritto di pensarla diversamente”. E se queste idee diverse urtano la sensibilità di gruppi culturali o religiosi? “Tali idee o comportamenti che colpiscono una specifica posizione intellettuale o un gruppo dovrebbero essere proibiti? Forse, ma un ricorso automatico alla proibizione congelerà ogni dibattito, visto che chiunque sarà infastidito da idee che non condivide. Molto meglio, dunque, migliorare l’ecosistema in cui si confrontano tali idee, attraverso tolleranza e rispetto reciproco”. Sostiene ancora Rajan: “Le molestie sessuali, fisiche o verbali che siano, non hanno diritto di esistere in società. Allo stesso tempo però i diversi gruppi (etnici, religiosi o altro, ndr) non dovrebbero andare continuamente e ovunque alla ricerca di potenziali offese nei loro confronti, altrimenti troppe cose sarebbero considerate offensive. In psicologia la teoria del ‘bias di conferma’ ci ricorda che una volta che una persona si mette alla ricerca sistematica di possibili insulti, quella persona li potrà trovare ovunque, anche nelle dichiarazioni più innocue”. Il politicamente corretto, dunque, come forma di “tolleranza” che minaccia “il rispetto per il progresso economico”. Parola di banchiere centrale cui soprattutto l’Europa dovrebbe prestare ascolto.

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