Europa e Stati Uniti ora divergono sulla natura dei bitcoin

Alberto Brambilla
La massima corte europea, la Corte di giustizia, giovedì 22 ottobre ha deliberato che le transazioni con valute crittografiche, come i bitcoin, sono esentate dall’imposta sul valore aggiunto. Una decisione che in fatto di regolamentazione fiscale equipara le valute virtuali a quelle battute dalle Banche centrali che hanno valore legale.

Roma. La massima corte europea, la Corte di giustizia, giovedì 22 ottobre ha deliberato che le transazioni con valute crittografiche, come i bitcoin, sono esentate dall’imposta sul valore aggiunto. Una decisione che in fatto di regolamentazione fiscale equipara le valute virtuali a quelle battute dalle Banche centrali che hanno valore legale. La Corte ha insomma concesso ai bitcoin la patente di “moneta” e ne incentiva la diffusione nei 28 paesi membri.  L’Europa assume così la stessa posizione dei regolatori del Regno Unito, dove l’ambizione è di fare della City di Londra l’hub globale per gli scambi di valute digitali, ma è in disaccordo con la definizione di valute crittografiche indicata dalla Banca centrale europea e si pone in contrasto con il parere dei regolatori degli Stati Uniti che avevano in precedenza deliberato che bitcoin dovrebbe essere considerato una commodity, ovvero una materia prima, e non una moneta e perciò essere sottoposto alla stessa regolamentazione degli scambi di materie prime e derivati.

 

Il caso è stato originariamente portato all’attenzione della Corte, che ha sede in Lussemburgo, quando in Svezia David Hedquist, il fondatore del sito web Bitcoin.se, aveva chiesto chiarimenti circa il regime fiscale cui sono sottoposte le transazioni in bitcoin e la conversione di bitcoin in monete centralizzate, come la corona svedese o l’euro – bitcoin a differenza delle monete emesse dalle Banche centrali non è regolato da un’autorità unica ma dall’intera comunità di utenti attraverso un processo di costante verifica-convalida delle operazioni tra almeno due soggetti. La delibera europea potrà dare un significativo impulso alla diffusione dei bitcoin in uno dei mercati più promettenti, rimuovendo la minaccia di un’imposta del 20 per cento sull’ammontare della transazione per l’utente che compra o usa monete virtuali in Europa, scrive il Wall Street Journal. La Corte risolve anche una disputa interna agli stati membri o almeno dovrebbe. Mentre le autorità fiscali britanniche avevano già preso posizone dicendo che bitcoin è di fatto una moneta, in alcuni paesi come Germania e Svezia i regolatori avevano inteso considerarla una commodity. La pronuncia della Corte non è in sé una sorpresa perché a luglio alcuni legali della Corte si erano espressi nello stesso senso. Colpisce la differenza di visioni con la Banca centrale europea, autorità monetaria dell’Eurozona a 19 membri.

 

[**Video_box_2**]Questa settimana il presidente della Bce, Mario Draghi, ha detto che i bitcoin e i suoi rivali sono “qualcosa di diverso, differente dalle monete conosciute [finora]”. In una pubblicazione di febbraio, la Bce affermava che le valute virtuali non possono essere paragonate alle monete: “Da una prospettiva economica non soddisfano pienamente tutte e tre le funzioni della moneta in letteratura economica: mezzo di scambio (il denaro è utilizzato come intermediario nel commercio per evitare gli inconvenienti di un sistema di baratto); riserva di valore (il denaro può essere immagazzinato e recuperato in futuro); e unità di conto (il denaro agisce come standard di unità numerica per la misurazione del valore e costi di beni, servizi, attività e passività)”. Il regolatore americano è anche più definitivo. Aitan Goelman, direttore per l’esecuzione delle normative alla Us Commodity Futures Trading Com mission, un mese fa aveva detto che “mentre c’è una grande eccitazione attorno ai bitcoin, l’innovazione non esonera quelli che agiscono in questo spazio dal seguire le regole applicabili a tutti i partecipanti al mercato delle materie prime”. L’Europa, dunque, allineata al Regno Unito ma non alla Bce, si distanzia dalla visione americana su Bitcoin. E non è detto che sia un male. (a.bram.)

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.