Claudio Descalzi, ad di Eni, al VI Festival della Diplomazia (LaPresse)

Perché è Roma la porta d'ingresso del business iraniano in Europa

Alberto Brambilla
In un’Europa che pare incapace di ricordare la matrice cristiano-giudaica consustanziale alla sua architettura fondativa, l’Italia emerge come la nazione occidentale che per prima accoglie una delegazione della Repubblica Islamica dell’Iran.

Roma. L’Italia è il paese europeo e occidentale che accoglierà per primo una delegazione della Repubblica Islamica dell’Iran, stendendo un sontuoso tappeto rosso (di Persia) davanti ai massimi vertici del regime ierocratico di Teheran. Lo farà perseguendo ragioni di opportunità economica generate dal tuttora difficoltoso accordo sul disarmo nucleare iraniano che prevede la graduale sollevazione delle sanzioni finanziarie a Teheran con potenziali contratti bilaterali miliardari. Il presidente Hossein Rohani sarà infatti in visita a Roma dal 14 al 15 novembre prossimi. E’ la prima visita in Italia dal 1999, quando l’allora presidente Khatami incontrò Romano Prodi, e la prima in una capitale europea dopo gli accordi sul nucleare di Vienna del luglio scorso. Rohani incontrerà il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e con tutta probabilità l’ad di Eni, Claudio Descalzi.

 

L’Italia, paese considerato amico dagli iraniani, prosegue una tradizione di rapporti cordiali corroborati dalle eccellenti relazioni tra la Santa Sede – secondo la Reuters Papa Francesco probabilmente riceverà Rohani, ma già Benedetto XVI teneva corrispondenza epistolare con Ahmadinejad – e la fucina dell’islam sciita che ha una delle braccia armate nell’organizzazione terroristica anti-israeliana Hezbollah. Lungi dall’essere lo stato europeo più attivo nel favorire una ripresa stabile dei rapporti diplomatici ed economici con Teheran – è una coccarda da consegnare alla Germania, primo partner commerciale e attore centrale del gruppo di Vienna – l’Italia di Matteo Renzi apre l’uscio d’Europa al business iraniano conservando l’ambizione, non scontata, di superare i tedeschi e tornare primo partner restaurando la situazione ante-sanzioni del 2012. Roma non ha mai fatto parte del gruppo di contatto occidentale poi sfociato nel gruppo di Vienna ma ha lavorato da agente esterno – anche per avere mano libera nei suoi affari – con un attivismo improntato all’opportunismo economico. Più di altri paesi, però, l’Italia dopo la sigla degli accordi, con una certa frenesia, si è avvantaggiata in quella che il Wall Street Journal ha definito la corsa all’oro degli ayatollah. Il quotidiano degli industriali Sole 24 Ore, nelle ultime settimane, può essere utilizzato come termometro di questa attenzione, e lo dimostrano le varie pagine dedicate alle opportunità di business nel paese: con un “Iran ad alto potenziale” l’export aumenterà di 3 miliardi nel quadriennio il 2015-18, “una manna”.

 

[**Video_box_2**]D’altronde la rinnovata attenzione è tutt’altro che un fenomeno solo mediatico, piuttosto è radicata nel tessuto industriale. Una delegazione italiana di 14 aziende private e pubbliche, 5 agenzie statali e 3 associazioni di categoria ha concluso la prima missione ufficiale a Teheran in agosto, presente il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, con la promessa di “raddoppiare in due anni l’interscambio, dimezzatosi dal 2006 a oggi a 1,6 miliardi di euro”; una “missione di sistema” governativo-imprenditoriale è prevista il 29-30 novembre subito dopo la visita di Rohani. Fata, unità d’ingegneria industriale di Finmeccanica, in predicato di essere ceduta a Danieli, è stata la prima compagnia occidentale ad avere siglato – prima della sollevazione ufficiale delle sanzioni – un contratto da 500 milioni con Ghadir, società che il Tesoro americano ritirene essere legata a Setad, holding a diretta disposizione dell’ayatollah Alì Khamenei, scriveva Reuters. Eni, Total, Bp e le altre società petrolifere, hanno chiesto al governo di Teheran di varare presto nuove condizioni contrattuali più incentivanti che prevedano il pagamento di sole tasse e royalties. Eni ha stigmatizzato un possibile warning della Casa Bianca alle principali compagnie petrolifere internazionali nel riprendere troppo velocemente le attività in Iran. Il ceo Descalzi ieri ha comunicato sia la possibilità di cercare “joint venture o soci per valorizzare” la divisione chimica Versalis – fondi americani hanno visitato lo stabilimento ravennate – sia la chiusura “nelle prossime settimane” di un contenzioso di 8 anni che comporterà il rimborso di 800 milioni di dollari di crediti vantati da Eni verso Teheran.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.