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Tazze e tafazzi

Il caffè italiano sarà pure imbattibile, ma ha molto da imparare da Starbucks

Luciano Capone
L’arrivo della più grande catena di caffè, i paradossi e le lezioni su fisco, capitale di rischio e produttività. Parla Zingales

Milano. Dopo tanti anni di falsi annunci dovrebbe sbarcare in Italia Starbucks, la catena di caffetterie statunitense. Secondo quanto anticipato dal Corriere della Sera, il colosso di Seattle da oltre 20 mila punti vendita in 68 paesi e circa 9 miliardi di dollari di fatturato è a un passo dall’accordo con Antonio Percassi – imprenditore che con le sue partnership ha contribuito all’espansione commerciale di Benetton e all’ingresso in Italia di Zara e altri marchi internazionali – per l’apertura del primo Starbucks a Milano già nel 2016. Il rapporto tra Starbucks e l’Italia è davvero particolare, perché il successo della catena americana nasce proprio dopo un viaggio a Milano del ceo Howard Schultz che decise di replicare l’esperienza e l’atmosfera dei bar e dei caffé italiani negli Stati Uniti. L’intuizione fu vincente ma nonostante il successo planetario Starbucks finora non ha aperto in Italia, forse per la consapevolezza della difficoltà di penetrare in un paese con una radicata cultura del caffé. La vicenda genera una duplice anomalia: da un lato la più grande catena del mondo di caffé non è italiana, dall’altro in Italia non è presente la più grande catena del mondo di caffé. E lo stesso vale per Pizza Hut. L’effetto è che nel mondo le persone consumano prodotti tipicamente italiani come il caffé e la pizza immaginando che siano quelli di Starbucks e Pizza Hut, che invece in Italia non esistono proprio. Luigi Zingales, economista alla Chicago Booth School of Business, da tempo usa il caso Starbucks per indicare pregi, potenzialità e difetti del nostro sistema economico. Gli abbiamo chiesto di parlarne.

 

“Capisco che la Apple non sia italiana, ma perché la cultura del caffé la esporta Starbucks? – si chiedeva Zingales – La produttività del lavoro in una caffetteria italiana è superiore a quella di Starbucks, si fanno caffé e cappuccini uno dietro l’altro, si prendono cinque ordini contemporaneamente. E questo spiega perché Starbucks non sia arrivato in Italia”. Resta l’interrogativo del perché non ci sia uno Starbucks italiano e per Zingales il motivo è un modello d’impresa che impedisce di fare economie di scala: “Basta andare alla cassa di un bar per capire, in genere c’è il proprietario che controlla tutto personalmente, niente è computerizzato o monitorato automaticamente”. Ma che fine fa la teoria di Zingales con l’apertura di Starbucks in Italia? “Ciò che colpisce è che Starbucks pensa da 20 anni a come entrare in Italia nel modo migliore – dice Zingales al Foglio – è una lezione di umiltà su quanto ci voglia per fare le cose per bene”. Ce la farà a competere con gli iperproduttivi baristi italiani? “Starbucks non può competere su prezzo e qualità del caffé e cerca di farlo sulla qualità dell’esperienza, fornendo wi-fi, spazi riservati, puntando a un mercato più alto di quello in America. Non si compete solo su prezzi e salari bassi ma anche sulla qualità, l’Italia l’ha fatto bene nella moda ma non nella ristorazione con l’eccezione di Eataly”.

 

Gli italiani sono bravissimi nei mercati di nicchia ma poi hanno difficoltà a replicare quel successo su una scala più ampia. Da cosa dipende? “Da tre fattori – dice l’economista – Quello fiscale che induce a restare piccoli per poter evadere le tasse, poi c’è una cultura d’impresa in cui sono elevati i benefici di controllo, non c’è disponibilità a finanziare le imprese senza avere la maggioranza e questo limita la capacità di espansione di chi ha idee migliori. E infine il fattore educativo, l’Italia è uno dei pochi paesi in cui avere più istruzione riduce la possibilità di fare l’imprenditore e questo ci fa riflettere anche su cosa s’insegni a scuola”.

 

[**Video_box_2**]In questo senso l’evasione fiscale non è solo un problema redistributivo, ma ha un impatto negativo sulla grandezza e sulla qualità delle imprese? “Questo è l’aspetto più importante”, dice Zingales. Resta da capire però se l’evasione sia causa o conseguenza di un sistema fiscale oppressivo. “La pressione fiscale è talmente alta che se si facessero immediatamente pagare le tasse a tutti ci sarebbe una quantità impressionante di fallimenti”. E allora come si fa? Ha fatto bene il governo a scegliere un approccio più soft con misure come l’innalzamento della soglia del contante? “La misura sul contante è solo un favore alla criminalità organizzata, c’è invece bisogno di una combinazione di fattori: riduzione delle aliquote, aumento delle sanzioni, lotta a corruzione e sprechi sul fronte della spesa. La verità però è che tutti i governi hanno sempre usato la lotta all’evasione per aumentare la pressione fiscale: cercare più soldi per continuare a spendere”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali