Giornali che meritano di essere comprati

Elena Bonanni
La ricca famiglia di imprenditori tessili Barbey acquista il Village Voice. Fondato nel 1955, è la voce di New York. Giornale dal piglio investigativo, è un simbolo, tra l'altro, per la beat generation.

Milano. Mentre rimbalzano sui giornali i dettagli sui mega deal del momento, la birra Corona (AbInBev) che si beve la Peroni (SabMiller) e i personal computer di Dell che si indebitano per conquistare i cloud e i bid data di Emc, le cronache americane si interrogano su un’altra transazione avvenuta in questi giorni. Più piccola, certo, ma non meno appassionante: il passaggio del settimanale alternativo newyorkese Village Voice al 58enne Peter D. Barbey, del clan Barbey, 48esima più ricca famiglia americana nel ranking Forbes, un impero costruito sul tessile. Un’operazione che per molti non era immaginabile solo fino a dieci anni fa. E che fa il paio, per imprevedibilità, con le ultime due mosse dell’ormai shakerato mondo dell’editoria: il colosso delle pubblicazioni fashion Condé Nast (Vogue e Vanity Fair) ha comprato il sito di musica indie Pitchfork; Playboy, incalzato dalla concorrenza del porno online,  non pubblicherà più foto di nudo integrale per allargare il proprio target di lettori.

 

Chi sono i Barbey? Una dozzina di membri in tutto, possiedono il 20 per cento dell’impero del tessile Vf Corporation, colosso mondiale dell’abbigliamento da 12 miliardi di dollari di ricavi e marchi come i jeans Lee, le scarpe Timberland e l’abbigliamento sportivo The North Face. Un impero tessile fondato dagli stessi Barbey nel 1899 (e portato in Borsa nel 1951) in Pennsylvania, dove ancora oggi la famiglia è proprietaria della Reading Eagle Company, una media company la cui pubblicazione principale è il Reading Eagle, datato 1868, il maggiore quotidiano della cittadina Reading (circa 80 mila abitanti), a metà strada tra Philadelphia e la capitale Harrisburg, che registra 50 mila copie di diffusione.

 

Tutt’altro mondo, il Village Voice. Simbolo newyorkese della stampa alternativa americana, creato 60anni fa, è diventato famoso per i servizi sull’arte e la cultura, per il giornalismo investigativo e tre premi Pulitzer vinti. E tutt’oggi, seppur in crisi di copie e di pubblicità come molti, è un peso massimo nell’immaginario anticonformista, di sinistra e intellettuale che si è sviluppato tra gli anni ’50 e ’90. E’ stato il giornale che ha pubblicato gli scritti di Jane Jacobs sull’urbanizzazione, di Nelson George sulla “post-soul culture”, ma anche i pionieristici lavori sulla crisi dell’Aids. E che quando a fine anni ’70 è finito per un periodo nelle mani del magnate Rupert Murdoch ha dato vita a una fiera rivolta dello staff, tale che lo stesso tycoon dei media, anni dopo la sua vendita, lo ha definito come “il tormento della sua vita”.

 

Eppure per alcuni, il passaggio dall'attuale proprietà del Voice Media Group (conglomerato media di Denver) a Peter Barbey è la prima buona notizia che il decimato settore dell’editoria ha ricevuto in anni. “Ora, ci sono ragioni per essere scioccati e sconvolti dalla vendita dell’imponente Voice (che un tempo aveva una diffusione di circa 250 mila copie) all’editore, di casa nella contea di Berk, del Reading Eagle, un giornale di cui probabilmente non avete mai sentito parlare a meno che non viviate nel Sud est della Pennsylvania”, ha commentato dalle pagine di Salon.com Scott Timberg, giornalista e autore del libro Culture Crash: the killing of the creative class. “Vi chiederete – ha continuato – come può un ragazzo ricco della provincia, che arriva da una antica famiglia senza un apparente legame con il movimento bohème, rilevare una pubblicazione che è stata un importante luogo di dibattito per beat, hippie, femministe radicali, per la nascente cultura hip-hop, per la fiction d’avanguardia e molto altro?”. “Ma questo è il miglior esito che posso immaginare per il Voice nel 2015”, conclude Timberg senza nascondere perplessità sull’attuale gestione e la speranza che Barbey faccia davvero quello che dice.

 

[**Video_box_2**]Peter Barbey, che è ceo della Reading Eagle Company ma che ha comprato il Village Voice attraverso la società di investimento Black Walnut Holding – ma non ha reso noto il prezzo – ha dichiarato che manterrà il settimanale separato dal gruppo che gestisce il quotidiano della famiglia. E sembra convinto del compito che lo aspetta. “The Voice ha avuto un ruolo giornalistico unico a New York e in tutto il paese. Che merita di sopravvivere e prosperare”, ha detto in un’intervista al New York Times spiegando la sua strategia per quando prenderà il timone a febbraio 2016. “E’ stato conosciuto negli anni come un luogo che ha fatto la reputazione degli scrittori - ha sottolineato - Se eri un bravo scrittore volevi scrivere per il Voice”. E ancora: “Uno dei maggiori problemi nei media oggi è la mancanza di attenzione ai contenuti. Molte pubblicazioni hanno spogliato i propri contenuti”. Ma questo, ha assicurato, non succederà sotto il suo controllo. Anzi lo staff verrà ampliato. D’altra parte Barney non è un lettore-editore qualunque, il Voice lo segue da quando  era al college negli anni ’70, quando divorava le recensioni sui film di Andre Sarris e si guadagnava uno spaccato di New York attraverso le lenti anti-establishment del giornale. Ora nella city sta comprando casa con la moglie e si dice serissimo nel voler investire e far diventare The Voice una delle maggiori pubblicazioni di Manhattan: “Il ricco passato gli ha conferito un forte brand ma non è abbastanza. Bisogna muoversi oltre”.

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