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Perché è menzognero il concerto (mediatico) sui tagli alla Sanità

Marcello Crivellini
Dal 2000 al 2012, lo stato centrale ha visto aumentare del 68 per cento le sue spese per la Sanità, fino a 112 miliardi di euro. Anche le uscite delle regioni non commissariate sono salite fino a oggi. Ma aumentare la spesa sanitaria non vuol dire migliorare la salute degli utenti.

In queste settimane si susseguono dichiarazioni catastrofiche sulla sanità e  su ipotetici tagli dei finanziamenti. Sono tutte dichiarazioni interne al mondo sanitario (sindacati, ordine dei medici, assessori e presidenti di regione, aziende farmaceutiche…) cioè di coloro che vivono di Sanità e ne gestiscono la spesa. Al grido di “basta tagli alla Sanità” li quantificano con le  cifre più diverse: da alcuni miliardi sino a trenta miliardi di tagli negli ultimi anni. E’ vero? Facciamo rispondere i numeri ufficiali scritti, non quelli gridati.

 

Per quanto riguarda il finanziamento (cioè i soldi che lo stato destina alla Sanità) basta consultare il sito del ministero della Salute che riporta una tabella del finanziamento dal 1992 al 2012. Ebbene da oltre vent’anni i valori sono sempre crescenti: dai 48 miliardi del 1992, ai 67 miliardi del 2000, ai 112 miliardi del 2012. Nel periodo 2000-2012 l’incremento è stato del 68 per cento, dal 2005 al 2012 del 23 per cento! Nessun altro settore in Italia ha avuto tanti e tali aumenti.

 

Per quanto riguarda la spesa (cioè i soldi effettivamente spesi dalle regioni per la Sanità) basta consultare un preciso documento della Ragioneria generale dello stato (“Monitoraggio della spesa sanitaria”). Anche qui i numeri veri dicono che sino al 2010 la spesa è sempre aumentata, nel 2011 è diminuita di 159 milioni (su 111 miliardi!) rispetto al 2010, nel 2012 è diminuita di 23 milioni rispetto al 2011, nel 2013 è diminuita di 1.132 milioni. In sintesi il finanziamento dello stato è sempre aumentato, mentre la spesa delle regioni è lievemente diminuita solo negli ultimi tre anni.

 

Questo fenomeno è approfondito nel documento della Ragioneria. La spesa delle regioni “normali” è comunque sempre aumentata (anche negli ultimi anni) con tassi di crescita medi del 5,3 per cento nel periodo 2002-2006, del 3,4 per cento nel periodo 2006-2010 e dello 0,1 nel periodo 2010-2013. La spesa sanitaria delle regioni “canaglia” dal punto di vista sanitario (grandi deficit e debito, poca qualità, mobilità passiva alta, resistenza ai cambiamenti e alla modernizzazione…) cioè quelle con piani di rientro è comunque crescente sino al 2010 ed è scesa dell’1 per cento tra il 2010 e il 2013. E’ dunque il deficit delle regioni con gestioni dissestate che (finalmente) è iniziato a scendere.

 

Dunque, quali tagli? Tagli ai finanziamenti, nessuno. Tagli alla spesa, pochissimi e concentrati nelle regioni la cui gestione è stata per decenni esempio di sprechi  incapacità e  spesso anche altro.

 

Alcune delle corporazioni sanitarie lamentano inoltre che l’Italia spende meno di alcuni altri paesi come Francia e Germania. E’ vero ma l’Italia è da anni in media Ocse (circa il 9 per cento del pil): il problema non è nostro ma di Francia e Germania che buttano via 2 punti di pil di spesa sanitaria inutilmente, ottenendo risultati di salute inferiori ai nostri.

 

C’è infatti una questione di fondo da chiarire: ci interessa la sanità o la salute dei cittadini? Come emerge chiaramente dall’analisi dei sistemi sanitari e della salute in tutti i paesi del mondo, aumentare la spesa sanitaria oltre un certo valore non vuol dire aumentare la salute, ma solo spendere di più. Studi dell’Ocse e la semplice osservazione dei dati mostrano che oltre una certa spesa sanitaria non si ottiene alcun risultato di salute; conviene spendere meglio, eliminare sprechi, prescrizioni inutili e inappropriate (dunque dannose per la salute), protocolli inefficaci, distribuire meglio la spesa, costruire sistemi di valutazione indipendenti, informare e coinvolgere i cittadini.

 

Assieme al Giappone siamo il paese con la migliore salute e la nostra spesa sanitaria è giusta (forse potrebbe essere anche minore, mantenendo gli stessi risultati di salute). Aumentare la spesa sanitaria non porterebbe ad alcun risultato se non garantire il protrarsi di situazioni di spreco, corporative, spesso ai limiti della legalità e a volte pericolose per la salute dei cittadini. Mantenere questo livello di spesa (eventualmente ridurlo un po’) è l’unico modo per costringere il mondo sanitario a cambiare per migliorare la salute dei cittadini, non i propri interessi interni.

 

Le tre vere criticità per ridurre gli sprechi

 

Non c’è dunque alcun allarme sul fronte del finanziamento e della spesa. Ci sono invece alcune situazioni critiche, di cui le corporazioni sanitarie evitano di parlare, e sulle quali è necessario e urgente intervenire. La prima riguarda le esigenze di salute e l’attuale modello di cure. Attualmente gli accordi nazionali tra ministero e regioni prevedono che le cure ospedaliere assorbano il 44 per cento della spesa totale (in realtà è spesso superiore). Questo stride con i cambiamenti demografici in atto da decenni. L’invecchiamento della popolazione – un successo storico per la nostra società – ha portato a esigenze nuove: la cronicità e la disabilità sono molto più diffuse e richiedono modelli di cura diversi, le cure per le acuzie risultano ormai sovradimensionate. Questa criticità va risolta spostando progressivamente 5-10 punti percentuali di spesa dalle acuzie alla cronicità-disabilità. Ecco la vera emergenza sanitaria e di salute, non la tutela economica dell’attuale assetto ospedalocentrico, ormai superato.

 

La seconda criticità è che la politica regionale considera la Sanità come il maggior canale di consenso elettorale attraverso il controllo degli appalti, delle nomine, delle assunzioni, eccetera. I direttori generali sono scelti solo per appartenenza politica e ubbidienza alle diverse cordate e costituiscono il braccio armato delle maggioranze e dei gruppi interni. Questo scandalo che colpisce la salute e le tasche dei cittadini va estirpato alla radice, togliendo agli assessori e ai presidenti di giunta la scelta dei direttori generali.

 

[**Video_box_2**]La terza criticità è che nell’attuale sistema il cittadino non conta niente e non dispone di reali strumenti di decisione e di scelta. Negli indicatori internazionali in questo settore l’Italia è sempre agli ultimi posti. La soluzione è stroncare la tradizionale cultura autoreferenziale del mondo sanitario creando centri nazionali  di valutazione indipendente sulla reale efficacia delle cure, sulla qualità dei servizi e degli operatori con risultati pubblici e pubblicizzati. I risultati delle valutazioni andrebbero associati a un sistema di incentivi e penalizzazioni per i principali attori del sistema, come avviene in qualsiasi altro settore non corporativo.

 

In conclusione è bene separare con chiarezza la Sanità dalla salute. La Sanità è solo uno strumento per la salute; il suo finanziamento e la sua organizzazione hanno senso solo se finalizzati alle esigenze di salute dei cittadini, non al mantenimento di gruppi di interesse e di vecchi equilibri  interni.

 

Marcello Crivellini è docente di Analisi e organizzazione di sistemi sanitari al Politecnico di Milano

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