Da sinistra a destra: Chavez (Venzuela), Nestor Kirchner (Argentina), Lula (Brasile)

L'implosione del socialismo sudamericano

Luciano Capone
Brasile declassato. La rivoluzione neobolivariana si sta autodistruggendo. Si chiude un ciclo politico in America Latina

Roma. E' giunta, attesa ma non per questo meno dolorosa, la mazzata di Standard & Poor's sul Brasile, che ha declassato il debito carioca a livello “spazzatura”. L’agenzia di rating, che ha abbassato il giudizio da BBB- a BB+, mantiene sui titoli brasiliani un outlook negativo, ritiene cioè che le cose siano destinate a peggiorare. E le cose non potevano andare altrimenti.

 

Dopo gli anni del boom delle commodity che ha trainato la crescita e che la classe politica ha usato per redistribuire risorse e gonfiare la spesa pubblica, il pil ha subìto un arresto lo scorso anno e quest’anno si contrarrà di circa il 2,5%, la peggior recessione degli ultimi 25 anni. L’inflazione continua a salire ormai verso la doppia cifra, la disoccupazione pure, il real è in caduta libera rispetto al dollaro e il deficit di bilancio fuori controllo. Ai problemi economici si aggiungono quelli politici. La presidente Dilma Rousseff è stata eletta da poco con un margine risicatissimo, ma dopo poco ha perso il controllo della maggioranza sotto il peso della crisi economica e dello scandalo Petrolão, il più grande giro di corruzione della storia del Brasile che ha visto distribuire miliardi di mazzette da parte di Petrobras, il colosso petrolifero statale di cui Dilma era presidente del consiglio di amministrazione, al Partito dei Lavoratori, al governo del paese da 12 anni prima con Lula e ora con Dilma.

 

Con un gradimento ai minimi storici, secondo i sondaggi all’8 per cento, a nulla è servito alla presidente nominare come ministro delle Finanze Joaquim Levy, un “neoliberista” formatosi all’università di Chicago, che ha promesso misure di austerità per mettere a posto il bilancio. Ormai non esiste più una maggioranza, nessuna forza politica è disposta a votare il taglio di una spesa pubblica che ormai supera il 40 per cento del pil (tra le più alte nei paesi in via di sviluppo) e così per quest’anno il deficit si attesterà tra l’8 e il 9 per cento.

 

Ma la crisi brasiliana indica un problema più ampia che riguarda gran parte del Sud America, che ha sperperato l’immensa ricchezza piovuta dal sottosuolo con il boom delle commodities nel decennio d’oro degli anni Duemila e ora si trova a dover affrontare gravi problemi strutturali, quelli di un’economia poco complessa che ha a lungo ignorato i problemi di produttività. Sono gli stessi problemi che in misura diversa stanno affrontando le altre due più grandi economie del sud America, l’Argentina e il Venezuela, anch’esse a lungo spinte dalla bonanza delle materie prime e ora alle prese con deficit e inflazione altissima gonfiati dal populismo fiscale.

 

“La rivoluzione bolivariana si sta autodistruggendo, per i suoi risultati, non per colpa dei colombiani né del presidente della Colombia", ha dichiarato il capo di stato colombiano Juan Manuel Santos, alle prese con una grave crisi umanitaria e diplomatica con il Venezuela di Nicolás Maduro, che sta espellendo migliaia di immigrati colombiani accusati di essere la causa della scarsità di beni essenziali in Venezuela. Ma l’affermazione del presidente colombiano può essere estesa da Caracas al resto dell’America Latina, è il “ciclo bolivariano” che si è concluso. Le forze variamente socialiste, antiamericane e populiste che hanno dominato la scena politica sudamericana negli anni Duemila con Hugo Chávez in Venezuela, Lula e Dilma in Brasile e i coniugi Kirchner in Argentina hanno esaurito la spinta propulsiva. Ne è convinto anche Heinz Dieterich, il sociologo marxista teorico del “Socialismo del siglo XXI” e a lungo ideologo del chavismo, che in un lungo articolo sul portale chavista Aporrea ha suonato il de profundis della sinistra in latinoamericana: “La sconfitta elettorale del governo venezuelano a dicembre sarà il colpo finale per la politica di sviluppo che Hugo Chávez, "Lula" da Silva e Néstor Kirchner – con l’appoggio del Socialismo del Siglo XX (Fidel e Raúl Castro)  – volevano costruire”.

 

[**Video_box_2**]Néstor Kirchner e Chávez sono morti, i loro eredi Cristina e Maduro sono al capolinea politico, Lula e Dilma sono alle prese con scandali e crisi economica e i Castro dopo l’apertura agli Stati Uniti hanno rinunciato al capitale ideologico anti-yankee per cercare di risollevare l’economia di Cuba. E infine “il drammatico deterioramento delle ragioni di scambio delle materie prime “terzomondiste” (petrolio e minerali), che sono vitali per le economie latinoamericane, moltiplica l’impatto recessivo dell’inversione dei flussi del capitale globale”. In parole più semplici, una volta finiti i superprofitti del boom del petrolio degli anni passati, il socialismo ha finito la benzina e, conclude Dieterich, “tutto questo ha portato alla fine del Decennio d’Oro del nuovo Bolivarismo”.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali