Il Mezzogiorno che va e che non ci fanno vedere

Federico Pirro
Ora i vertici della Svimez dovranno aggiornare le analisi e rivedere le loro valutazioni "catastrofiche" sull’economia meridionale. Appunti per la Fiera del Levante di Bari e per non farsi abbindolare dalla lagna meridionalista.

Ora i vertici della Svimez dovranno aggiornare le analisi e rivedere le loro valutazioni "catastrofiche" sull’economia meridionale, e speriamo che le autorità politiche che interverranno alla 79esima Fiera del Levante di Bari, questo finesettimana, tengano conto nei loro discorsi e nelle future azioni di policy – si attende per questo mese il "masterplan" governativo sul rilancio del Mezzogiorno – dei rilevanti processi in atto che smentiscono, e per la verità non da oggi, una visione passatista e autoflagellante del meridione. 

 

Gli ultimi dati dell’Istat sull’occupazione in Italia nel secondo trimestre dell’anno evidenziano come anche nel Mezzogiorno l’occupazione sia ripartita: infatti, rispetto allo stesso periodo del 2014, si registrano 120 mila occupati in più, ovvero un più 2,1 per cento, un dato sicuramente non marginale. E si badi bene che tale aumento riguarda anche gran parte del sud, perché è elevato in Puglia (più 33 mila unità) – l’incremento più alto in Italia insieme al Piemonte – così come lo è nelle Isole, così come lo è molto forte in Basilicata, più contenuto (più 1,5 per cento) ma sempre apprezzabile in Campania, mentre solo la Calabria resta esclusa da questi incrementi.

 

Per la verità anche nel primo trimestre dell’anno il Mezzogiorno aveva registrato, sempre secondo le rilevazioni dell’Istat, un incremento di occupazione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, pari allo 0,8%, quando invece in Italia e nel Nord ci si era attestati allo 0,6 per cento.

 

I segnali di risveglio dell’occupazione, dunque, trainati dai provvedimenti del governo, se hanno in particolare le loro punte di diamante negli stabilimenti del Gruppo Fiat Chrysler – Melfi, Sevel, Termoli, Pratola Serra – trovano poi riscontro anche negli impianti di componentistica di Tdit-Bosch, Getrag, Magneti Marelli a Bari, nell’aerospazio in Campania e Puglia, nell’agroalimentare, nella meccanica pesante, e anche in alcune aree industriali con criticità fin troppo note, come ad esempio quella di Taranto, ove i lavori di ambientalizzazione dell’Ilva stanno generando occupazione aggiuntiva in decine di aziende dell’indotto.

 

Si pensi, al riguardo, che solo per il rifacimento dell’Altoforno n.5 del siderurgico ionico, uno dei più grandi d’Europa e che da solo forniva il 40 per cento della ghisa dello stabilimento, saranno al lavoro circa 800 unità di imprese esterne. E dagli inizi di agosto, la fabbrica con la riaccensione dell’altoforno 1 e con la marcia degli altiforni 2 e 4 ambisce – stante le difficoltà a ricostruire un dimagrito parco clienti in seguito alle vicende giudiziarie che hanno messo in seria difficoltà l'azienda – a raggiungere i 6 milioni di tonnellate di acciaio grezzo a fine anno, riducendo drasticamente i contratti di solidarietà. 

 

[**Video_box_2**]Allora anche da questi dati sinteticamente riportati si evince in maniera inoppugnabile che l’Italia meridionale non è affatto alle soglie della desertificazione industriale e, soprattutto, che non è affatto condannata al rischio di sottosviluppo permanente come ha dichiarato il 30 luglio scorso la presidenza della Svimez nelle sue anticipazioni del Rapporto che presenterà a fine ottobre. Con questo non si vuole in alcun modo affermare – ed è bene ribadirlo ancora una volta – che nelle regioni meridionali non persistano accentuati squilibri occupazionali, nella produzione e distribuzione della ricchezza e a livello di servizi sociali per i cittadini rispetto al nord. Ma non bisogna stancarsi di ripetere – ove pure ve ne fosse bisogno – che tali squilibri hanno radici storiche profonde e che su di essi bisognerà lavorare con un impegno di lunga lena che dovrà vedere, accanto all’esercizio di un ruolo di guida molto forte del governo – già esercitato per la verità ma che molti si ostinano a non vedere – anche, e direi soprattutto, un impegno assoluto e di lungo periodo da parte delle classi dirigenti meridionali, dagli amministratori locali agli imprenditori, dai sindacati ai professori universitari, senza autoindulgenze e senza autoassoluzioni.

 

E’ proprio questa la sfida contenuta nell’idea del "masterplan" per l’economia del sud lanciata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nella direzione del 7 agosto: un programma di lavoro che deve coniugare impegni del governo su grandi obiettivi di crescita del Mezzogiorno ma di interesse nazionale, con impegni inderogabili delle regioni del sud che a breve devono tentare il recupero dei fondi europei residui 2007-2013 e subito dopo lanciare e perseguire una spesa efficiente e tempestiva dei fondi del ciclo 2014-2020. Un Mezzogiorno inoltre che non deve contrapporsi con l’ostruzionismo delle associazioni ambientaliste ad alcuni grandi progetti che lo riguardano – dalla Trans Adriatic Pipeline (Tap) alle estrazioni petrolifere on e off shore – perché non v’è giustificazione alcuna per tale opposizione, quando ci si trova di fronte all’inderogabile necessità di crescere e di creare occupazione per coloro che purtroppo ancora non ce l’hanno, o che l’hanno perduta.

 

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