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Perché la Cina ci abituerà alle montagne russe

Francesco Forte
Perdite, guadagni, "rimbalzi". Leggere Coase per capire quel che sta avvenendo e che cosa ci riserva il futuro. Per questo colosso, con un miliardo e 200 milioni di abitanti e un pil stimato come il secondo del mondo, le lenti occidentali per quanto raffinate servono a poco.

Per interpretare la crisi della Cina – che ancora ieri ha fatto sì che le Borse europee chiudessero in terreno negativo, nonostante la buona tenuta di Wall Street, al termine di una giornata altalenante, caratterizzata da nervosismo e incertezza – ci sono due chiavi di lettura: quella classicamente occidentale e quella del premio Nobel per l’Economia Ronald Coase (1910-2013), contenuta in nuce nel suo ultimo libro “Come la Cina è diventata un paese capitalista”, scritto con il coautore cinese Ning Wang. Per capire quel che sta avvenendo e che cosa ci riserva il futuro, per questo colosso, con un miliardo e 200 milioni di abitanti e un pil stimato come il secondo del mondo, le lenti occidentali per quanto raffinate servono a poco. Ciò perché, come sostennero Coase e Wang, nel processo di transizione della Cina ci sono tre diversità rispetto al mondo di tipo occidentale.

 

La prima è intrinseca al modo di ragionare e di decidere dei cinesi, che non si basa su concetti astratti generali, come per noi, ma sulla osservazione di singoli fenomeni, per cui si procede al loro apprendimento gradualmente e sperimentalmente. Se una scelta particolare funziona, la si fa. Se non funziona abbastanza, o non funziona affatto, si cerca qualcosa d’altro con altre decisioni particolari. Ciò comporta che fra la scelta di sostenere il tasso di crescita del pil, mediante una maggiore domanda interna della popolazione, e quella di accrescere il commercio estero accumulando nuovi surplus, coloro che comandano in Cina ondeggiano a tentoni. Reputano che non esistano vere leggi economiche. La decisione di far fluttuare il cambio dello yuan, seguendo in modo graduale le leggi di equilibrio del mercato, non viene attuata per un’intima convenzione che questo sia il mezzo per generare una crescita equilibrata e duratura, ma per motivi strumentali, nella speranza che ciò sia apprezzato dal Fondo monetario internazionale e dalle agenzie di rating, così da accrescere la credibilità di Pechino.

 

La seconda diversità della Cina, nel suo processo di transizione, è la frammentazione dei centri di potere e l’incerto equilibrio fra imprese privilegiate e imprese che devono seguire regole di sopravvivenza e di efficienza. Il Partito comunista che governa il paese è un reticolo in cui c’è – è vero – un comandante generale, ma ci sono margini di autonomia nei vari poteri centrali e ai livelli regionali e distrettuali. La cabina di comando non è unitaria e lo è sempre di meno, mano a mano che si accettano dosi crescenti di mercato, che non vengono giustificate con i criteri della nostra teoria economica, ma per sostenere la crescita del pil che è l’obiettivo del Partito. La Banca centrale riceve spazio per la politica monetaria di fluttuazione del cambio, in regime di moneta neutrale, su sollecitazione del ministero del Commercio estero, ma poi adotta una politica di espansione monetaria per compiacere i controllori della Borsa e delle banche e le autorità delle zone autonome che temono crisi di aziende troppo indebitate.

 

[**Video_box_2**]Il terzo aspetto che Coase e Wang hanno messo in luce è quello più critico. In Cina, manca il mercato delle idee, cioè lo scambio delle informazioni che genera creatività e capacità di scegliere al meglio. Ciò mette in forse il prosieguo dell’intenso sviluppo cinese. In effetti, la Cina ufficialmente avrebbe un tasso di crescita del pil di poco inferiore al 7 per cento, ma molti stimano che esso, prima del crac della Borsa, fosse sovrastimato di 2 punti percentuali. Nessuno sa quanto la recente crisi finanziaria possa incidere sul pil. C’è un eccesso di capacità produttiva di acciaio e di acquisti di futures di petrolio, probabilmente dovuti al fatto che mancavano le previsioni sul mutamento di domanda di beni. Si sostiene che lo sgonfiamento della Borsa ha riportato le valutazioni su livelli realistici, ma non si conoscono i criteri contabili delle imprese. La Banca centrale espande la quantità di moneta, ma non sa quanti sono i derivati. Se nell’economia reale si possono compiere stime fisiche, nella finanza i valori sono immateriali e il mercato – ovvero lo scambio – delle informazioni è essenziale.

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