Appunti sul Dio Uguaglianza
Roma. Il senso comune nei paesi capitalistici occidentali è – o meglio, era – che “la disparità di reddito è sia una virtù sia un vizio”, ha scritto Chris Giles sul Financial Times. “L’aspetto virtuoso della disparità, cioè il fatto che essa fornisce incentivi a mettere impegno in quel che facciamo e genera crescita economica, dev’essere soppesato alla luce del vizio che è costituito dalla manifesta ingiustizia della diseguaglianza”. Questa, fino a un paio d’anni fa, era una visione comunemente accettata nel discorso pubblico, quando da sinistra (e non solo) si diceva per esempio che il problema della società e del governo era quello di “determinare un grado accettabile di redistribuzione”, aggredendo gli eccessi di diseguaglianza restanti con imposte e sussidi. A seconda dei gusti, ovvio. “Negli ultimi due anni, però, abbiamo assistito a un’enorme produzione di ricerca accademica protesa a sconfessare questo trade-off”, osserva Giles: “Una diseguaglianza inferiore dà una forte spinta alla crescita – dicono i sostenitori di queste tesi – perciò i paesi davvero possono avere maggiore redistribuzione di ricchezza, un differenziale inferiore tra ricchi e poveri, e allo stesso tempo una crescita più sostenuta”. Più uguali siamo, meglio stiamo. Thomas Piketty ci ha costruito su una fortuna editoriale e personale, anche se per sua stessa ammissione sarà difficile vedere realizzate imposte patrimoniali coordinate a livello globale. Ma intanto è lo sforzo livellatore che conta, il ditino alzato verso tutto ciò che non ci faccia apparire uguali.
L’effetto trickle-down, quello della ricchezza che “sgocciola dall’alto verso il basso”, è bandito dal bon ton. Anche Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, e Angel Gurría, segretario generale dell’Ocse, si sono sbracciati sui media per diffondere studi che confermassero la nouvelle vague. Nei loro palazzi, un tempo bersaglio di uova e fumogeni dei no global, sponsorizzano conferenze con George Soros, ospiti immancabili Piketty e Stiglitz. Poi però i loro studi sul presunto nesso tra uguaglianza e crescita nel mondo, oltre che difficilmente verificabili per l’eterogeneità del campione osservato, secondo Giles hanno qualche falla logica. Primo: il gap tra ricchi e poveri spiegherà sempre una parte infinitesimale dello sviluppo di un paese, perché fattori ben più imponenti spingono la crescita. Allora perché concentrarsi sui dettagli? Secondo esempio: l’Ocse sostiene che la mancanza di accesso agli “skills” da parte dei poveri è il meccanismo attraverso il quale la diseguaglianza frena la crescita; poi però non assegna un ruolo agli “skills” nelle sue equazioni per stimare la crescita. Piuttosto i dati comparati dicono che Stati Uniti e Regno Unito hanno standard di vita elevati, tassi di crescita notevoli e bassa diseguaglianza rispetto al resto del mondo. Come dire che, oltre che ascoltarlo, Soros sarebbe bene imitarlo: la ricchezza si redistribuisce solo dopo che la si è creata.
[**Video_box_2**]Se le lenti da inforcare sono sempre e comunque quelle della diseguaglianza da eliminare, le conseguenze possono essere nefaste per la società tutta. Esempio: in America, spiegano in un libro in uscita Chester Finn e Brandon Wright, l’attenzione esclusiva delle politiche educative per gli alunni con maggiori difficoltà – sociali o di apprendimento – fa sì che i più intelligenti e preparati non vengano più stimolati a dare il meglio di sé. Per loro nessun curriculum speciale, nessun incentivo a velocizzare il corso di studi, eccetera. Al punto che adesso, dai test Pisa dell’Ocse, viene fuori che i giovani tedeschi o singaporiani – studiando in paesi nei quali selezione e cura dei talenti sono di casa – eccellono molto più frequentemente degli americani. Se l’ossessione di redistribuire la ricchezza prima di crearla sopprime i Soros nella culla, chissà quanti inventori, imprenditori e artisti ci stiamo perdendo per strada nelle aule trasformate in tante chiese del Dio Uguaglianza.
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