Tutte le ipotesi (anche mercatiste) dietro la svolta cinese sullo yuan

Marco Valerio Lo Prete
Nei paesi emergenti le istituzioni e le regole formali non sono tutto quando si tratta di far scattare lo sviluppo, sostengono autorevoli economisti. Così, a voler essere ottimisti, anche la decisione di Pechino di svalutare lo yuan si può leggere come il tentativo di entrare di diritto nel sistema monetario internazionale.

Dopo una breve pausa agostana, ho ripreso da oggi, come ogni lunedì, la mia rubrica "Oikonomia" su Radio Radicale. Qui trovate l'audio, di seguito invece il testo.

 

La scorsa primavera, mentre leader politici e media europei erano comprensibilmente presi dal dipanarsi della crisi greca, in questa rubrica notavamo che c’erano almeno due vicende cinesi che avrebbero caratterizzato l’anno in corso: non soltanto il lancio della Banca asiatica d'investimento per le infrastrutture, ma anche alcune riunioni riservate presso il Fondo monetario internazionale su un dossier apparentemente tecnico, riunioni riguardanti il peso di Pechino nel sistema monetario internazionale e in particolare i cosiddetti Diritti speciali di prelievo (Dsp). Quest’ultimo sviluppo è stato riportato in primo piano dalla svalutazione dello yuan – cioè della moneta cinese – e dalla modifica della politica del cambio annunciate dalla Banca centrale della Repubblica popolare, decisioni che hanno sconvolto le Borse mondiali nella settimana appena conclusa.

 

La Banca centrale della Repubblica popolare ha fissato giovedì la parità centrale dello yuan, o renminbi, a 6,410 per dollaro americano, l’1,1% sotto il fixing precedente, a sua volta inferiore dell’1,6% a quello di martedì che era stato fatto scendere dell’1,9% da lunedì. Insomma, se all’inizio della settimana ci volevano 6,11 yuan per comprare un dollaro americano, alla fine della settimana ce ne volevano di più, 6,41. Allo stesso tempo la Banca centrale ha fatto capire che come punto di riferimento per il fixing e quindi la banda d’oscillazione consentita quotidianamente allo yuan, d’ora in poi prenderà come riferimento ogni giorno la “chiusura” dei mercati nella sera precedente.

 

Due le possibili spiegazioni di questa svolta. La prima spiegazione chiama in causa la categoria della “guerra delle valute”, o “currency war”. Secondo questo approccio, la svalutazione dello yuan cinese rispetto al dollaro americano è da mettere in relazione al calo delle esportazioni registrato negli ultimi mesi dall’ex Celeste Impero. L’export cinese infatti è sceso dell’8,3% a luglio rispetto a un anno prima, ed è in lieve contrazione pure se si considerano i primi interi sette mesi del 2015. Un deprezzamento dello yuan, rendendo più convenienti i prodotti made in China, puntellerebbe tutta l’economia che quest’anno dovrebbe crescere del 7%, non troppo per gli standard del paese. Si parla di “guerra delle valute” perché, con una ripresa globale ancora sotto tono, con i debiti privati e pubblici non ancora smaltiti, con l’instabilità politica che si affaccia praticamente ovunque, la svalutazione della propria moneta non sarebbe una pratica cara al solo Partito comunista. Di guerra delle valute si parlò nel 2010, dopo che uno degli effetti delle politiche espansive non convenzionali della Fed, fu il deprezzamento del dollaro americano; se ne è parlato a proposito del Giappone e del suo yen, e pure a proposito del calo dell’euro dopo l’annunciato Quantitative easing di Mario Draghi a inizio anno. Anche non volendo prestare ascolto alle autorità politiche di Pechino, che nelle scorse ore hanno precisato di non voler aiutare surrettiziamente l’export locale, alcuni analisti fanno notare che lo yuan, dopo il calo degli scorsi giorni, resta comunque il 10% più forte di un anno fa rispetto alle valute dei principali partner commerciali. Come dire che, per rilanciare davvero l’export, la svalutazione dovrebbe proseguire nelle prossime settimane.

 

La seconda possibile spiegazione della mossa cinese, quella per cui propende per esempio il settimanale inglese Economist, ha invece a che fare con quelle riunioni riservate del Fondo monetario internazionale di cui parlavo in aprile. Entro la fine dell’anno l’organizzazione internazionale con sede a Washinton deciderà infatti se inserire o meno lo yuan cinese nel gruppo delle principali quattro valute internazionali con cui calcola il valore del Diritti speciali di prelievo. I Diritti speciali di prelievo funzionano come una unità di misura tra i partner del Fondo monetario, possono essere utilizzati per scambi valutari volontari, e costituiscono uno strumento di liquidità internazionale e in nuce una valuta alternativa al dollaro. Se lo yuan fosse incluso nel paniere di valute utilizzato per calcolare i Diritti speciali di prelievo, la moneta cinese assumerebbe davvero lo status di valuta di riserva globale. Tuttavia, tra le condizioni poste dai dirigenti del Fondo monetario per la “promozione”, c’è la piena convertibilità dello yuan e un tasso di cambio deciso sempre più in base a meccanismi di mercato e non soltanto secondo criteri politici. Quella dei Diritti speciali di prelievo, per la leadership politica cinese, non è soltanto questione di prestigio internazionale. Uno yuan promosso a valuta di riserva globale contribuirebbe per esempio a indirizzare flussi di capitali stranieri verso il settore privato cinese; ridurrebbe i costi di transazione; in generale una valuta con un tasso di cambio più libero di fluttuare ridurrebbe alcune imprevedibili distorsioni politiche agli occhi di investitori e risparmiatori.

 

Ma basta forse una conferenza stampa dai toni un po’ sibillini per assicurare una svolta monetaria simile? Secondo alcuni autorevoli economisti, le “istituzioni” non sono tutto quando si tratta di spiegare lo sviluppo e la crescita, soprattutto nei paesi emergenti. Contano i comportamenti di specifici governi e specifici leader, per esempio per ridurre i rischi di espropriazione o aumentare l’efficacia dell’amministrazione pubblica. Andrei Shleifer, professore ad Harvard e uno dei fautori di questo approccio, per dare l’idea di quanto le grandi riforme possano aiutare a mantenere tassi di crescita elevati, ma per avviare uno sviluppo robusto conti perfino la fortuna o la sensibilità di singoli leader, una volta commentò così la figura di Deng Xiaoping, guida indiscussa della Cina praticamente dal 1978 al 1992 e fautore del “socialismo con caratteristiche cinesi” che ha comportato la progressiva apertura di Pechino al capitalismo: “Non c’era nulla di inevitabile a proposito della parabola di Deng. E’ accaduto soltanto che i cinesi scelsero un dittatore che decise di offrire una qualche protezione ai diritti di proprietà”. Così parlò Shleifer sulla decennale trasformazione capitalistica della Repubblica popolare.

 

Oggi, cercando di leggere tra le righe dell’ultima decisione del governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, dobbiamo sperare che – al di là di quanto formalmente previsto e annunciato dalle istituzioni locali – l’obiettivo riformista sarà quello di fatto prevalente rispetto all’ipotesi di una eventuale “guerra di valute”. 

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