Sergio Marchionne (foto LaPresse)

La gabbia dell'exit tax allargata

Redazione
Una gabella per lasciare l’Italia rende le imprese nane e tartassate

Massimo Mucchetti, esperto giornalista, senatore del Pd e presidente della commissione Industria del Senato, in una lettera al Foglio sulla strategia di Marchionne e sulla fuga in Olanda e Regno Unito della Fiat dopo la fusione con Chrysler ha rilanciato la sua proposta di rivedere la cosiddetta “exit tax”, ampliandone il campo d’applicazione. L’exit tax è un’imposta una tantum che scatta quando un’impresa sposta all’estero la sua base imponibile, è l’ultima tassa che un’impresa paga quando decide di andarsene, e nel caso relativo a Fiat (ora Fca) l’idea è di estendere l’imposta per fare in modo che venga pagata anche in caso di fusione. Che la società se ne vada se vuole, non prima di avere pagato l’ultima gabella, si dirà. L’idea in realtà è quella di evitare la fuga delle aziende rendendo più costoso il loro trasferimento. O quantomeno, a voler di nuovo essere maligni, di fare un po’ di cassa facendosi pagare un “riscatto” per andarsene. Al di là degli aspetti tecnici e della compatibilità con il quadro europeo di libero movimento di capitali, dare un’ultima tosata alle pecore che escono dal recinto non servirà a darci un futuro più ricco. I produttori di ricchezza non investono o scappano dalla penisola (isole comprese) perché l’Italia impone il total tax rate sulle imprese più alto nel mondo sviluppato (siamo oltre il 65 per cento), perché siamo al 56esimo posto nella classifica della Banca mondiale sulla facilità di fare impresa, all’80esimo nell’indice della libertà economica dell’Heritage foundation, al 49esimo nell’indice sulla competitività del World economic forum.

 

Troppe tasse, spese, burocrazia, tutti problemi che non possono essere certo risolti con l’applicazione estensiva di un’altra tassa, che rischia invece di perpetuare il nanismo aziendale, rendere la vita più complicata alle imprese che ambiscono a internazionalizzarsi per sopravvivere alla globalizzazione, magari fondendosi con altre. Un’exit tax più dura cambierebbe qualcosa? Ha invece ragione Mucchetti a dire che l’Italia dovrebbe ambire a impiantare un secondo produttore automobilistico nel paese, ma perché ciò accada (l’ex “incumbent” lo concede?) servono quelle riforme strutturali che renderebbero il paese più competitivo. L’exit tax non servirà a impedire la fuga a chi vuole scappare da un inferno fiscale, né a placare il vampirismo statale.

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