Una donna cammina davanti a un tabellone degli scambi finanziari a Shanghai (foto LaPresse)

“Whatever it takes” alla pechinese

Alberto Brambilla
Per la prima volta nella storia moderna la Cina comincia una campagna di svalutazione dello yuan. Ambizioni cinesi e ricaschi sugli esportatori occidentali. Una scelta cui pure la Fed dovrà sottostare - di Alberto Brambilla

Roma. Per la prima volta nella storia moderna le autorità cinesi hanno deciso di svalutare lo yuan, o renminbi, nel tentativo di contrastare l’imprevisto rallentamento della crescita economica e delle esportazioni. “Pechino ha adottato un approccio alla ‘whatever it takes’ per evitare una frenata eccessiva”, ha detto Amy Yuan Zhang, economista della banca Nordea, a riprova della straordinarietà della decisione, paragonabile alla politica monetaria espansiva inaugurata dalla Banca centrale europea di Mario Draghi. La svalutazione, comunicata a sorpresa martedì, rientra nel complesso e rischioso processo di adattamento della Cina al mercato valutario e finanziario internazionale; gli interventi governativi per frenare il recente tracollo dei listini cinesi rispondono all’esigenza delle autorità politiche di dimostrare la capacità di arginare la frana di ribassi in un mercato relativamente acerbo (il tentativo di fondere le Borse di Shanghai e Hong Kong di inizio anno aveva la stessa logica).

 

La mossa, per quanto scioccante, risponde alla volontà manifesta di Pechino di internazionalizzare gradualmente lo yuan concedendo in futuro alle cosiddette “forze del mercato” la possibilità di fissare il cambio con le altre valute già incluse nel paniere elitario del Fondo monetario internazionale (dollaro, euro, yen, sterlina) nel quale il renminbi ambisce da tempo a entrare. In fondo c’era da aspettarselo visto che Pechino, quest’anno in particolare, ha guadagnato il palcoscenico mondiale con la costituzione della banca per le infrastrutture (Aiib), appoggiata dall’Europa ma non da Stati Uniti e Giappone, unita all’ambizione di riaprire la millenaria Via della Seta, che significa ambire a riassemblare un’Eurasia caotica. Siamo soltanto all’inizio di una serie di interventi: la mossa non rimarrà isolata e i suoi riflessi sono ampi. Infatti, dopo la svalutazione dello yuan del 2 per cento nei confronti del dollaro, mercoledì la Banca centrale ha ulteriormente indebolito la moneta (vedi articolo in basso). Il presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley, ha detto che ci saranno “gigantesche implicazioni” ma “voglio lasciare la politica monetaria cinese ai cinesi. Infatti lascio la politica del dollaro al Tesoro”, come a dire che sia dunque Washington a comprare debito in dollari dopo che per anni l’ha fatto Pechino. La situazione fluida concede di dire tutto e il suo contrario, ma Dudley tra le righe lascia intendere che l’intenzione della balbuziente Fed di alzare i tassi a breve potrebbe essere rivista in senso cautelativo lasciando quindi in essere la coda delle politiche espansive iniziate ben prima della crisi finanziaria del 2008. Con la decisione di svalutare lo yuan, la Cina è entrata nell’arena della cosiddetta “guerra valutaria” con lo scopo di rendere più competitivi i suoi esportatori. Le Borse occidentali hanno già cominciato a distinguere i vincitori dai perdenti.

 

[**Video_box_2**] Si mette male per le corporation americane, giapponesi ed europee. La decisione sorprendente quanto opaca – il Fondo monetario internazionale non era stato ufficialmente messo al corrente – ha diffuso ansia tra i trader che, pur consapevoli del rallentamento del Dragone, hanno risposto all’assertiva contromossa con una raffica di vendite dal momento che nessuno sa se le autorità cinesi saranno capaci di governare la volatilità del tasso di cambio mentre molti sono certi che non bastera una svalutazione competitiva spot a ridare vigore all’export, caduto del 3,8 per cento a luglio rispetto allo stesso mese dell’anno prima. “Per i mercati – scriveva nell’immediatezza della decisione il chief investment strategist del fondo d’investimento BlackRock, Even Cameron Watt – è il caso di sparare prima, e di rispondere agli interrogativi in seguito”. La volatilità dello yuan sarà una variabile con cui gli operatori dovranno convivere. Sui listini borsistitici le società minerarie anglo-americane (Glencore, Bhp Billiton, Angloamerican), quelle del lusso (Lvhm, Tiffany, Burberry, Kering) e quelle automobilistiche di alta gamma tedesche (Bmw, Mercedes-Benz, Audi) predilette dalla rampante borghesia asiatica sono sotto pressione: in parte perché vedono assottigliarsi vendite e profitti denominati nelle rispettive valute e in parte perché i concorrenti cinesi possono rialzare la testa. Saranno più competitivi, soprattutto nei confronti della vicina e depressa Russia di Putin, alleata obtorto collo di Pechino.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.