Sergio Marchionne (foto LaPresse)

La strategia di Marchionne è globale e non si cura di Roma

Giuseppe Berta
Il senatore Mucchetti ha ragione a preoccuparsi che l’Italia sarà ridotta a spettatrice dell’Auto mondiale. Ma la questione della “politica industriale” va considerata entro una nuova cornice: della rilevanza asiatica, della dubbia vocazione imperialista tedesca, e del bisogno di consolidare il settore.

Dal 2008 è in atto nel sistema mondiale dell’automobile un autentico sommovimento, tale da mutare sostanzialmente la sua configurazione. Due episodi recenti offrono una testimonianza importante circa la profondità del cambiamento in corso. Due eventi che, per una coincidenza, sono successi pressoché in concomitanza, alla fine di aprile di quest’anno, ma che in genere non vengono posti in collegamento, quando si affrontano le prospettive future dell’industria dell’auto.

 

Il primo episodio, a cui fa riferimento anche il senatore Mucchetti nel suo intervento di ieri su questo giornale, è costituito dal discussissimo incontro di Sergio Marchionne con gli analisti finanziari svoltosi il 29 aprile, quello in cui il Ceo di Fiat-Chrysler ha puntato il dito sull’enorme investimento che i produttori d’auto hanno sostenuto nel 2014, pari a 100 miliardi di euro, per lo sviluppo dei loro prodotti. Un investimento destinato a non generare ritorni adeguati. Di qui una duplice conclusione: il sistema dell’auto, così com’è oggi, appare dedito a un consumo eccessivo di capitale; la via d’uscita sta in una risoluta azione di “consolidamento” del settore, attraverso una concentrazione e una riduzione del numero dei produttori.

 

La presentazione di Marchionne scatenavano una controversia con gli analisti. In particolare, la polemica è stata con uno degli analisti più autorevoli, Max Warburton di Bernstein (la società d’analisi che poco prima aveva diffuso un articolato report sulla profittabilità del settore poco lusinghiero per Fca, rimarcando la sua scarsa redditività). In una nota un po’ ironica, Warburton faceva osservare che la presentazione di Marchionne era “affascinante”, ma allo stesso tempo “un po’ bizzarra” (Wall Street Journal, 29 aprile). Anche Andy Sharman (Financial Times, 7 maggio) trovava “bizzarra” la mossa di Marchionne, che parlava agli analisti ritenendoli in grado di influenzare i flussi di capitale, ciò che secondo Warburton costituiva un presupposto sbagliato. Comunque, in coerenza col proprio assunto, Marchionne incominciava subito dopo il pressing su General Motors per quello che giudicava un matrimonio non solo possibile, ma quasi indispensabile. E’ andata fin qui come sappiamo, col fermo rifiuto di Mary Barra, Ceo di Gm, di prendere in considerazione la proposta. D’altronde, è chiaro che soltanto incominciare a discutere dell’idea di Marchionne significherebbe accettare la sua ipoteca manageriale sull’operazione. Come avviene sempre con Marchionne, attento a lasciarsi aperte tutte le strade, la soluzione del “consolidamento” del settore non è peraltro l’unica possibile.

 

Nella stessa occasione, ha lasciato capire che un’altra via ci sarebbe ed è quella di sottrarre il settore ai suoi confini novecenteschi per dislocarlo lungo altre frontiere tecnologiche. Ci torneremo in conclusione. Per ora, cambiamo ottica e continente per spostarci a Wolfsburg dove, negli stessi giorni, s’era appena conclusa la lotta per il potere al vertice della Volkswagen. Uno scontro inusitato, fra il presidente del gruppo, che ne era stato a lungo il leader carismatico, Ferdinand Piëch, e l’amministratore delegato Martin Winterkorn, che pure era parso quasi una creatura dall’altro. Infatti, nel 2006 il “feroce patriarca” Piëch (Financial Times, 28 aprile) aveva estromesso il precedente ad, Pischetsrieder, per sostituirlo con Winterkorn, preso da Audi. Questa volta però era il manager a sconfiggere un patriarca che, come ha scritto l’Ft, ha rappresentato insieme il meglio e il peggio del mondo tedesco dell’auto. L’anziano patron si era servito del complicatissimo sistema di governance di Vw per imporre la propria visione industriale. Alla ricerca a tutti i costi del primato mondiale per la casa di Wolfsburg, Piëch ha cercato in ogni modo di allargare il perimetro del gruppo, attraverso una costosa politica di acquisizioni. La sua sconfitta nella battaglia interna si deve proprio a questo, al fatto aver dilatato e forzato i confini aziendali con acquisizioni di un marchio come Ducati (uno tra i capi d’accusa che gli sono stati imputati). Con la sua uscita, Vw ha archiviato sia la visione grandiosa dello sviluppo tipica di Piëch sia la sua strategia “imperiale” di espansione. Il suo sogno era stato di creare un gruppo “che producesse ogni genere di veicolo a motore e fosse dominante in tutte le regioni e i segmenti di mercato” (International New York Times, 28 aprile). In realtà, i guadagni derivanti dalle sinergie si erano rivelati insoddisfacenti e i costi minacciavano di andare fuori controllo. Di qui il successo del più prudente Winterkorn, convinto della priorità di consolidare il perimetro aziendale con una robusta razionalizzazione delle strutture di costo.

 

Cerchiamo di trarre un senso da due episodi che hanno in comune più di quanto non sembri. Entrambi ci dicono che il settore dell’auto deve uscire dalla sua storia novecentesca, quella che ne aveva fatto “l’industria delle industrie”. Un ruolo, questo, che era connesso a una capacità di investimento colossale, quasi illimitata, forse oggi insostenibile. Ora è venuto il momento del consolidamento, anche perché la globalizzazione non è più sinonimo di crescita illimitata. Al contrario: disegna una geografia produttiva e di mercato variabile, dove un’area cresce e l’altra rallenta, sicché sono indispensabili continue misure di aggiustamento. La marcia dell’Asia non è affatto finita, anche se Toyota, nel secondo semestre di quest’anno, ha perso il primato delle vendite, passata a Vw. E tuttavia, Toyota ha imparato alla fine dello scorso decennio che il primato non costituisce di per sé garanzia di successo economico (come era già stato per Gm).

 

[**Video_box_2**]In occidente come in oriente l’attenzione per i costi si sta fortemente accentuando. Con la sua sortita, Marchionne ha drammatizzato una condizione che era già ben percepita dai produttori. L’ha fatto perché la redditività di Fca è insufficiente? Può anche darsi, non di meno il problema che ha sollevato è reale e peserà. Così come sarà da verificare l’altra strada, quella che mira a una radicale innovazione di prodotto, come l’“auto che si guida da sé”, ciò che postula una fusione tra esperienze imprenditoriali fin qui sviluppatesi in modo indipendente. Ecco allora che si guarda con attenzione al caso di Tesla, che si parla di un interesse di Google e di Apple per l’auto. Se questo avvenisse, sarebbe la fine del sistema che abbiamo conosciuto per un secolo, inaugurato da Henry Ford con la sua “Model T” nel 1909.

 

E l’Italia, in tutto questo? E’ costretta a essere soltanto spettatrice? Ha ragione Mucchetti a preoccuparsene, ma la questione della “politica industriale” va considerata entro questa nuova cornice, non nella vecchia. E’ chiaro che il nostro paese deve badare al consolidamento: un piccolo segnale lo si è avuto con la decisione di Giorgio Giugiaro di abbandonare definitivamente la sua creatura, Italdesign, dopo l’uscita di Piëch. Anche quello era stato il tassello di un disegno che si è interrotto. Diciamo allora che la sfida per noi sta nella capacità di mobilitare la nostra filiera delle competenze nel sistema dell’auto per attrarre alcune delle nuove iniziative e dei progetti industriali che sicuramente prenderanno corpo nel nuovo scenario.  

 

 

Giuseppe Berta è docente di Storia dell’industria all'Università Bocconi

 

Di più su questi argomenti: