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Perché è lecito farsi due domande su conti pubblici, tasse e rivoluzione renziana

Nicola Rossi
Annunciati tagli alle tasse per 45 miliardi. Bene, ma piano con gli entusiasmi. Negli ultimi vent’anni ne abbiamo sentite tante, senza mai vederne una.

E così, ci siamo. Il governo italiano rilancia. E alla grande. Sarebbero infatti 45 i miliardi di euro di minori imposte che gli italiani – famiglie e imprese, proprietari di casa e non – si vedrebbero arrivare fra il 2016 ed il 2018. Più o meno, tre punti di prodotto interno lordo. Un taglio secco e senza precedenti della pressione fiscale: via le imposte sulla prima casa (Imu e Tasi) dal 2016, via “buona parte” dell’Ires nel 2017, e dal 2018 via alla riforma dell’Irpef. Pochi obiettivi e molto chiari.

 

Per quanto riguarda le coperture, bisogna invece, per il momento, accontentarsi di qualcosa di appena appena meno preciso. Pare, infatti, che l’intero programma di riduzione della pressione fiscale sia allo studio da sei mesi e che sia “evidente” la possibilità di farcela, “continuando ad abbassare il debito” e a condizione che “il Parlamento continui a lavorare con intensità”. Certo, non è chiaro in che senso le riforme costituzionali o, per fare un secondo esempio, le unioni civili possano contribuire alla copertura del piano di riduzione delle imposte, né è facile intuire come questo compito possa essere svolto da una riforma della pubblica amministrazione dichiaratamente a impatto zero sui conti pubblici. Certo, il riferimento ricorrente è alla necessità di “essere decisi” in sede di Unione Europea per ottenere quei margini di flessibilità che "è assolutamente possibile" vengano concessi (si suppone, a fronte di un deciso programma di riforme), ma come combinare questa ipotesi con la volontà di “continuare ad abbassare il debito” (che, per la verità, in rapporto al prodotto si prevede decrescere dal 2016 ma in presenza di una pressione fiscale sostanzialmente stabile a partire dallo stesso anno)? E come conciliare un intervento di portata molto significativa e permanente sul lato delle entrate con la necessità di impedire che dal 1° gennaio 2016 scattino le clausole di salvaguardia e con esse gli aumenti di Iva e accise per oltre 10 miliardi di euro e rimangano senza copertura gli interventi in tema di indicizzazione delle pensioni e di rinnovo dei contratti degli statali (per, più o meno, altri 4 miliardi di euro) per non parlare della decontribuzione legata ai nuovi contratti di lavoro?

 

Certo, “c’è ancora lo spazio per fare la revisione della spesa”. E’ inutile dire che ne siamo profondamente convinti, ma non altrettanto convinto è sembrato essere fino ad oggi il governo e, per fare solo un esempio, interventi sulla pubblica amministrazione simili a quelli realizzati altrove non sembrano all’ordine del giorno. E allora, applausi a scena aperta per l’eliminazione dei “carrozzoni pubblici” ma, di grazia, quanti bisognerà eliminarne (beninteso, con personale incluso) da settembre per alleggerire di 3 punti percentuali la pressione fiscale? O ci attaccheremo alle cosiddette tax expenditures, finendo – ironia della sorte – per aumentare la pressione fiscale? O, infine, faremo fare alla revisione della spesa la fine di tutti i precedenti governi e ci limiteremo ad una operazione di tax shifting (dalle dirette alle indirette) in un gioco a somma zero per i contribuenti?

 

Vedremo. Allo stato e fino a quando non conosceremo i dettagli del piano governativo, è doveroso evitare ogni entusiasmo. Negli ultimi vent’anni di riduzione delle tasse ne abbiamo sentite tante, senza mai vederne una. E la credibilità della politica non ne ha tratto grande giovamento. E poi, il governo italiano è un grande debitore – il più grande in Europa, dopo la Grecia – e come tutti i grandi debitori va trattato con molta cautela. Salutando con soddisfazione ogni sforzo nella giusta direzione (e la riduzione del carico fiscale va certamente nella giusta direzione) ma scoraggiando la tendenza propria dei grandi debitori: sperare di ridurre il proprio debito accumulandone altro e altro ancora. Molti in Europa lo hanno capito e la netta sensazione è che, a questo punto, si aspettino che dovremmo averlo capito anche noi italiani. Prima e più di altri. Anche perché a debito non si cresce.

 

[**Video_box_2**]Ciò detto, l’aspetto più interessante del dibattito suscitato dal governo sta altrove. Contrariamente a quello che molti pensano, sta nel fatto che – se ci trovassimo di fronte a schieramenti politici degni di questo nome – questa sarebbe una straordinaria occasione per definire con chiarezza il campo programmatico delle prossime politiche. Le tasse, certo, ma soprattutto il rapporto fra lo Stato ed il cittadino. A destra, avremmo la flat tax, l’aliquota unica (chissà, forse associata al cosiddetto minimo vitale e quindi ad un intervento di contrasto alla povertà anche degli incapienti) con tutte le sue dirompenti implicazioni sul rapporto fra fisco e contribuente. A sinistra avremmo invece le otto aliquote Irpef del progetto di riforma dell’imposta personale dovuto al think tank Nens di Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco e il connesso “nuovo” assegno familiare selettivo. Una netta contrapposizione di culture politiche. Per gli italiani, una scelta finalmente chiara. Ma forse è chiedere troppo. Bisognerà accontentarsi e brindare se, in un caso e nell’altro, i conti pubblici riusciranno a reggere alla prova. E noi con loro.

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