A tu per tu

Il banchiere del Cav.

Salvatore Merlo

I ricordi dell'infanzia a Tombolo, provincia di Padova, "Il posto più povero del Veneto appena uscito dalla guerra". Il primo impiego in banca, e poi gli affari. L'incontro con Berlusconi a Portofino. L’invenzione del consulente “globale” e poi del family banker. A tu per tu con il fondatore di Banca Mediolanum

Milano3 City. Anche lui, nel 1994, era tra quelli contrari all’ingresso dell’azienda in politica, come Fedele Confalonieri e come Gianni Letta. “Contrarissimo, pensavo fosse una follia, e mi sbagliavo”. Ma l’ingresso in politica era inevitabile: Berlusconi non poteva fare altrimenti, dico a Ennio Doris, il banchiere di famiglia. E allora lui sorride per l’ombra associativa, l’allusione al conflitto d’interessi. “Le racconto un aneddoto che spiega tutto”, comincia. “Arcore, 1981 circa. Eravamo tutti a cena a casa di Silvio, ambiente rilassato, scherzoso, come al solito. Berlusconi è seduto a capotavola, e ha fatto mettere un telefono alle sue spalle, su una consolle, e dà ordine di passare a quel telefono solo una specifica, e a noi commensali ignota, chiamata. A un certo punto il telefono squilla. Sospensivo imbarazzo. Berlusconi letteralmente si cala dalla sedia, si mette in ginocchio, e così, strisciando con le gambe sul pavimento, raggiunge con fare teatrale il telefono. Da quella posizione ci lancia uno sguardo di recitato dolore, un’intensa espressione d’implorazione e di sconforto. Poi, finalmente, solleva la cornetta mentre noi ormai ridiamo tutti per la scenetta. E sa chi era al telefono?”. Era Craxi, ipotizzo. “Proprio lui. Quella sera Berlusconi mi spiegò che per non chiudere doveva fare il ‘giullare’ dei politici. Disse proprio così, il giullare dei politici. Attenzione, per non chiudere. Non per ottenere chissà quali vantaggi. Ecco, lui è entrato in politica perché non voleva più essere il giullare di nessuno”. 

   
Il decreto Craxi sulla televisione non fu un favore? “Fu un atto di giustizia. C’erano tre pretori, nel Lazio, nelle Marche e in Piemonte, che avevano chiuso le trasmissioni di Berlusconi in quelle regioni. Per Fininvest voleva dire la morte. Era una fucilazione prima del processo, che avrebbe dovuto stabilire se quel sistema di trasmissioni regionali violava la legge o meno. Craxi fece un decreto che permetteva alla tivù Fininvest, in attesa del processo, di trasmettere. Poi Berlusconi quei processi li vinse tutti”. A dire il vero, ho letto ricostruzioni un po’ diverse. “Ma è così come le dico, io c’ero”.

 
Rosso di capelli, lungo d’ossa, l’accento veneto cantilenante, e poi le formule milanesi, cortesi e carezzevoli apprese nei tanti anni vissuti in Lombardia, Ennio Doris, fondatore di Banca Mediolanum, assapora la pienezza dei suoi settantacinque anni all’ombra di conquiste sicure. “Mio padre vendeva bestiame, mia madre badava alla casa e lavorava, mia sorella era camiciaia. Vivevamo in due stanze, a Tombolo, provincia di Padova”.

   

Oggi è il capo di un grande gruppo bancario e assicurativo, e ha un patrimonio di quasi due miliardi di dollari. Dicono che Doris sia stato fondamentale nella storia di Berlusconi: la sua banca è stata una pompa di liquidità per un imprenditore a lungo vissuto come un outsider, e un po’ pirata, dal sistema capitalistico italiano. Fininvest è entrata in Mediobanca, nel cosiddetto salotto buono, solo di recente, con Marina Berlusconi. E comunque soltanto dopo la morte di Enrico Cuccia, con il quale i rapporti pare non fossero eccezionali. “Cuccia era un uomo straordinario”, ricorda Doris. “Ma all’antica. La sua idea di sistema erano le fabbrichette, i capannoni, la tecnica e la meccanica, il ferro e gli altiforni, le automobili… Berlusconi viaggiava su un altro tipo di affari, aveva bisogno di finanziamenti per acquistare diritti televisivi e film. E Cuccia questo non lo capiva fino in fondo. Cuccia era lontanissimo dal mondo della comunicazione, che invece era il mio mondo. Il mondo delle vendite. Mio padre faceva il sensale nel mercato del bestiame, che poi era l’attività principale del mio paese, Tombolo. Il posto più povero del Veneto appena uscito dalla guerra. A Tombolo erano tutti venditori, anche perché terra da coltivare non ce n’era. Si parlava un linguaggio iperbolico, ciascuno faceva sempre le cose più grandi e più belle di com’erano, un po’ così, per abitudine, tra bottiglioni di vino che passavano di mano in mano all’osteria e le fette di polenta che sfrigolavano sulla gratella”. Una vita profumata di terra, di carne, di pastone, di erba, di pioggia, di sudore, di stallatico. “I figli che non ce la facevano da soli li si lasciava morire. Ogni tanto le campane della chiesa suonavano a morto. E se era un bambino, le vecchiette mormoravano delle parole terribili: ‘Fortunata quella madre’ che ha una bocca in meno da sfamare”.

  
E Doris è rimasto venditore per tutta la vita, dal primo impiego in banca, fino alle assicurazioni, ai fondi d’investimento, fino all’intuizione di Mediolanum, l’invenzione del consulente “globale”, e poi del family banker, “pensai che si potessero offrire in una unica soluzione tutte le soluzioni di risparmio, come avveniva all’estero”. E chissà se è per questo che sorride quasi sempre, Doris, di un sorriso professionale, da venditore appunto, quasi un’abitudine, un atteggiamento del volto venuto a farsi con il tempo tutt’uno con la carne e le ossa, gli zigomi e la mascella. Si muove con gesti cauti, ha sulle labbra un sorriso che si rivolge alle cose, come per propiziarsele o per ringraziarle di non essere ostili. Sembra che non conosca altra espressione facciale. Gli chiedo allora che differenza c’è tra un venditore e un imbonitore. E lui risponde, in un fiato: “L’imbonitore non dura. Fonda tutto sull’empatia di un momento. Ma quella si esaurisce, poi ci vuole altro”.

 

E come si fa a vendere? “Sapendo che la gente si muove in base alle emozioni. Le racconto un aneddoto. Deve sapere che molti anni fa, ad Arcore, Berlusconi e Dell’Utri accoglievano gli inserzionisti ai quali si dovevano vendere gli spazi pubblicitari. E tra di loro scommettevano su chi era più bravo a fare i complimenti. Ma con un’unica regola vincolante: il complimento doveva essere fatto immediatamente, alla presentazione, in pochi secondi, e doveva essere sincero, cioè doveva essere fondato su una reale qualità della persona alla quale lo si rivolgeva. Berlusconi era imbattibile. Trovava in pochissimi secondi un pregio, una capacità, un dettaglio positivo, un punto di forza in ciascuno. Mi ricordo che c’era una signora proprio brutta, poverina. E lui, all’istante, le disse: ‘Ma che bella abbronzatura che ha’. E, caspita, era vero. La signora era brutta assai, ma aveva un magnifico colore della pelle. Un’altra volta, in queste cene con gli inserzionisti, c’era un uomo sulla sedia a rotelle, affetto da una grave malattia. Berlusconi gli strinse la mano, e poi gli fece questo complimento: ‘Ma che stretta vigorosa’. Ed era vero. Infatti diventava simpatico a tutti. E vendeva. Vede, la bocca può mentire, ma il corpo no. Se quando vendi qualcosa imbrogli, la gente lo capisce, e diffida”.

 

 
Gli uffici di banca Mediolanum sono a Milano 3, periferia nord, dove tutto è stato costruito dal Cavaliere, anche questo palazzo anni Ottanta, tra campi da tennis, da beach volley, da calcetto, alberi, laghetti, fontanelle, e quasi nient’altro. All’ultimo piano, in un’atmosfera rarefatta che pare quella dell’Eliso o d’un altro luogo fuori dal mondo, separati da una porta che si apre solo con tessera magnetica, ci sono gli uffici della famiglia Doris, di Ennio e di suo figlio Massimo. Domina un silenzio di roccaforte, disteso e uguale. Superata quella porta cambia tutto, dal colore delle pareti all’arredamento. La stanza in cui vengo ricevuto è a dir poco minimal, un televisore piantato sul televideo informa dell’andamento azionario, un lungo tavolo ovale per le riunioni risalta sulle vuote pareti di un bianco accecante, e poi eccolo: un ritratto a grandezza naturale di Silvio Berlusconi nei suoi anni migliori, gessato a righe, cravattone regimental, naso da bambola e gran sorriso ribaldo. “E’ la riproduzione fotografica di un dipinto ad olio”, vengo informato. E l’originale dov’è? “Lo aveva la mamma di Silvio”. E Doris al Cavaliere porta un rispetto amicale che sfiora l’omoerotismo. “Averlo incontrato mi ha cambiato la vita”, dice. “E se ci penso, e ci penso spesso, quell’incontro è avvenuto per sapienza del destino. A volte penso che ci abbia messo una parola buona mia madre, da lassù”.

 

Era il 1981, e Doris, diploma in ragioneria, era un affermatissimo broker della Dival, gruppo Ras, “vendevamo fondi d’investimento, ero responsabile di una squadra di ottocento persone, e guadagnavo cifre colossali, anche cento milioni al mese. Ma volevo fare di più e avevo delle idee”. E Doris pensa che a convincere Berlusconi fu anche la sua baldanza, la sua fame, e l’idea che lui non sarebbe stato un manager stipendiato da Finivest ma un socio voglioso di arrampicarsi. E poiché Doris racconta tutte queste cose con gran compiacimento, non posso far a meno di chiedergli: che differenza c’è tra chi si è fatto da solo e chi eredita? “Chi si è fatto da solo sa cosa vuol dire bagnarsi le scarpe e lottare per la sopravvivenza”, dice. 

   
E così, dalla sua memoria, emergono ricordi lontani, tutta una dura esistenza difficile, tutta una scalata. “Non ho fatto l’università perché c’erano da mettere i soldi sul comodino di papà. E a scuola ero bravo. Ma mia sorella lavorava, mio padre lavorava, mia madre lavorava, e non navigavamo nell’oro. Si partiva la notte, dalla frazione di Tombolo al comune di Noale, dove il mercato del bestiame cominciava alle 4 del mattino, trenta chilometri ad andare e trenta chilometri a tornare, a piedi. Quando arrivarono le biciclette fu uno straordinario progresso. Mio padre mi raccontava di una notte in cui a un certo punto cominciò a nevicare, significava che il mercato non ci sarebbe stato, e si doveva tornare indietro, camminando al gelo, affondando nella neve. Una signora caritatevole, vedendo questa povera gente stremata, diede a ciascuno qualche centesimo perché prendessero il treno. Loro si misero i soldini in tasca, e con l’affanno di risparmiatori nella povertà tornarono comunque a piedi”. 

  

I suoi genitori avevano vissuto un’esistenza uniforme, sempre uguale. Un’unica esistenza dal principio alla fine, senza picchi, senza capitomboli. Con lo stesso ritmo quieto e faticoso, l’onda del tempo li aveva portati dalla culla alla tomba. “Ma io no”, dice Doris. Lui si sentiva come forzato ad essere precoce, a elevarsi, “bisognava essere più svelti del destino, il destino che non si toglieva mai di mezzo, il destino che toglieva di mezzo te”. Era necessario essere più svelti, “e non un giorno, ma subito”.

  

Così ecco il primo impiego in banca, e poi gli affari, un dio temibile e una sorte che sembra iscritta nella sua carne, una scalata lungo le pareti della tranquillità borghese, fino all’incontro con Berlusconi, e dunque fino alla ricchezza, quella vera. “Ero a Portofino, a fare una passeggiata con mia moglie, ero stato a Genova per lavoro. Quando in piazzetta, a un certo punto, vedo Silvio Berlusconi, l’imprenditore di cui avevo letto un’intervista su Capital”. In quell’intervista lui diceva che se qualcuno aveva una buona idea doveva andargliela a proporre. Anche Urbano Cairo lo conobbe così Berlusconi. “E difatti qualche mese dopo, quando andai nella sede del gruppo, ad accogliermi trovai il giovanissimo Cairo, che faceva l’assistente”. 

 

 
E insomma Doris, come uno stalker, si avvicina al Cavaliere seduto al bar sulla piazzetta di Portofino. “E lui, malgrado fosse di cattivo umore, invece di mandarmi a quel paese, mi fece parlare e poi mi fissò un appuntamento. Così un pomeriggio arrivai ad Arcore, gli portai un fascicolone di centinaia di fogli, in cui si dimostravano tutti i soldi che facevo con la Dival, vendendo fondi d’investimento. Dissi al Cavaliere che si poteva fare molto di più con un istituto, che oltre i fondi, vendesse anche le assicurazioni. Come accadeva all’estero. E inoltre gli spiegai che questa rete commerciale avrebbe anche potuto piazzare gli immobili che a quel tempo Berlusconi costruiva, a Milano2, a Milano3… A lui servivano soldi liquidi, perché stava lanciando le tivù. E doveva vendere molto rapidamente. L’idea era buona. E sa che accadde?”. Che accadde? “Che tutti quei fogli che gli avevo portato vennero sollevati da una folata di vento e andarono a spargersi sul prato della villa. Sembravano migliaia, erano come triplicati. Anzi, non erano più fogli di carta, erano già migliaia di miliardi”. 

 
Dunque lo convinse. “Diventammo soci al cinquanta per cento. Ci mettemmo duecentocinquanta milioni a testa. Qualche sera dopo Silvio mi invitò al teatro Manzoni, che aveva comprato da poco. Quella sera recitava Veronica Lario. Per mantenere le apparenze, poiché non aveva lasciato la prima moglie, Silvio si faceva accompagnare da Bebo Martinotti. Faceva credere, senza confermarlo, che Veronica fosse la donna di Martinotti. Ma ovviamente non era così. Si capiva. Quella sera, quando mi presentò Veronica, Silvio disse alla sua futura moglie: ‘Questo è più visionario di me’”. 

 

 
E a differenza del Cavaliere, Doris ha avuto soltanto una donna, per tutta la vita, “cinquantacinque anni di matrimonio”, dice, mentre gli osservo la fede al dito, la pelle delle mani trasparente, quasi come una foglia d’autunno. E quando parla di sua moglie, a un certo punto, il banchiere un po’ si commuove. “La conobbi che aveva quindici anni e io poco più di ventidue. Una sera del 1962 chiamai al telefono lo zio di Lina, ‘Tombolato Valentino’, che era un cliente della banca dov’ero impiegato al paese. Ancora mi ricordo il numero: 99014. Andai a portargli dei documenti, non so più cosa, ma mi ricordo che ad aprirmi la porta fu questa ragazza da infarto. Sembrava Sophia Loren…”. Poi, con tono spiritoso: “Dietro di lei, intanto, c’era la zia che la spingeva per venirmi in contro. E le sussurrava: ‘Vai, vai, che quello lì è un buon partito. Lavora in banca!’. Mi innamorai sul colpo. Secco. Ci sposammo qualche anno dopo. Lei i primi tempi mi ha pure fatto da segretaria”.

 

E Doris oggi ha due figli e sette nipoti, cinque della figlia Annalisa e due dal figlio Massimo. Cattolico? “Praticante”. Delle polemiche sui matrimoni omosessuali cosa pensa? “Penso che Gesù è finito sulla croce perché era diverso”. Allora gli chiedo a bruciapelo che ne pensa di Matteo Salvini, in questi giorni corteggiatissimo da Berlusconi. E lui sorride, e risponde incassando la testa sormontata di capelli rossi nel colletto alla francese, solleva leggermente le braccia, come fanno i sonnambuli o gli zombi, contrae il volto in una specie di smorfia: e così a un certo punto mi accorgo che Ennio Doris sta imitando Salvini. “E’ rozzo”, gli dico io, sintetizzando. “A me piaceva De Gasperi”, risponde lui, diplomatico. E l’altro Matteo, di Renzi lei che ne pensa? “Renzi è uno che decide. Poi uno può non essere d’accordo, ma è il primo da molto tempo che è nelle condizioni di governare. Anche Monti, all’inizio, era così. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa Monti. L’Italia ha bisogno di governi che governino. Purtroppo il nostro sistema istituzionale è costruito per avere presidenti del Consiglio, deboli. Comprensibile, d’altro canto. Un tempo c’era il fascismo. Ma oggi?”. 

 

Doris racconta sempre che, in trent’anni, Berlusconi non si è mai occupato di Mediolanum. Ma è poi vero? Mai mai? “Un socio perfetto. Non mi ha mai rotto le balle. Lui non si occupa di tecnicalità, di numeri, di bilanci, di problemi fiscali. Queste cose lo annoiano. Dunque delega. Ma ha sempre avuto chiarissimo dove stesse il core business di ciò che faceva: l’audience televisiva che diventa pubblicità e dunque ricavo. Della banca non si è mai occupato, quando gli proponevo qualche affare un po’ eccentrico lui mi rispondeva così: ‘Ennio, non puoi fotterle tutte’”. La metafora non è elegante, ma rende. 

 

“Ogni affare ha bisogno di tre elementi, diceva Berlusconi, tre elementi che sono tre limiti: primo il tuo tempo, secondo il tuo denaro, e terzo i tuoi dirigenti. Dunque non si possono fare gli affari solo perché sono redditizi, non si possono disperdere le ‘energie’, ma bisogna coltivare le ‘sinergie’. E infatti lui è entrato come socio nel settore bancario soltanto perché fiutò la possibilità di piazzare gli immobili utilizzando la rete commerciale dei promotori finanziari. Altrimenti non credo l’avrebbe fatto. Solo una volta, mi ricordo, gli chiesi un consiglio. Erano gli anni Ottanta, ed ero preoccupato dall’arrivo imminente di concorrenti esteri nel mio settore. Pensavo ci volessero delle alleanze, specie in un mercato arretrato come il nostro. Allora avevo saputo dalla Chase Manhattan Bank c’era un gruppo di broker londinese, si chiamava Ledit, con il quale si potevano fare accordi. Ma si doveva diventare azionisti, era necessario comprare prima il 5 per cento di questa società. Si trattava di circa 7 milioni di sterline. Poiché ero incerto andai da Silvio, gli spiegai il problema. E lui: ‘Io non lo farei’. Ci pensai a lungo, e decisi di farlo, me ne infischiai del consiglio. Dopo pochi mesi il gruppo Ledit saltò e noi perdemmo secchi 16 miliardi di lire. C’era qualcosa che Silvio aveva percepito”. Cos’è, magia? “E’ fiuto. Berlusconi è una macchina complessa che assaggia, rileva, ascolta, tocca, e in quanto fa tutto questo percepisce il mondo degli affari (e della politica). Il giorno che perdemmo tutti quei soldi lo chiamai dicendogli che avevo gettato via sette milioni di sterline. Mentre parlavo, capivo che dall’altro lato della cornetta lui stava sorridendo, quasi mi sembrava di vederlo. ‘Ennio, la prossima volta fidati di più del mio istinto’. (Tra parentesi ci tengo a dire che quei soldi li abbiamo recuperati quasi tutti, eh)”.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai, Ettore Bernabei, Umberto Bossi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.