Alexis Tsipras con Jean-Claude Juncker (foto LaPresse)

Un sano e robusto debito europeo

Alessandro Corneli
Inutile girarci attorno: non c’è euro senza condivisione all’americana. Idee per non rimandare all’infinito lo scambio tra rigore e condivisione.

Ancora una volta non si vuole affrontare, e sciogliere, il nodo che blocca la strada alla nascita degli Stati Uniti d’Europa, da molti auspicata. Si ribadisce che questo è il traguardo e si crede di raggiungerlo attraverso integrazioni progressive.  Così al prossimo vertice Ue del 25-26 giugno si discuterà del progetto franco-tedesco di trasferimento pieno alla Commissione, al Consiglio e al Parlamento europeo, della politica economica ancora gestita dai singoli stati, anche se già le leggi finanziarie annuali devono ottenere  l’approvazione di Bruxelles. La prossima cessione di sovranità, quindi, riguarda il bilancio: quanto ogni stato può spendere. Prospettiva più favorevole ai ricchi che aumenteranno la distanza dai meno ricchi. Ma Berlino e Parigi hanno un obiettivo tattico: vogliono stringere l’Eurozona e allentare l’Ue per accontentare il Regno Unito. Una uscita di Londra dalla Ue sarebbe più grave di un’uscita della Grecia dall’euro. 

 

Secondo la logica della perdita successiva di pezzi di sovranità si dovrebbe arrivare alla costituzione di un governo federale che, sostenuto da un parlamento federale, approva un bilancio federale, una volta unificati i sistemi fiscali, assistenziali, previdenziali, sanitari, ecc. Fatti tutti questi passaggi, resta però il nodo del debito pubblico, che a Maastricht si volle restasse calcolato su base nazionale. Questa è la contraddizione fondamentale dell’Eurozona: non si possono mettere insieme le risorse degli stati membri nella prospettiva finale di gestirle in modo unitario lasciando fuori i debiti.

 

Anche una politica economica comune e l’unione bancaria non potranno funzionare se i debiti restano nazionali: anzi, favoriranno un trasferimento di ricchezza dai paesi con più debito, e quindi costretti da Bruxelles a una politica economica di restrizioni, a quelli con debito più basso.

 

Mentre l’economia reale si è adattata all’euro, l’economia finanziaria – di cui il volume del debito pubblico, che nell’Eurozona è di circa 9 mila miliardi di euro, pari al 93 per cento del pil, è parte essenziale – considera i titoli pubblici, pur denominati in euro, in base alla loro etichetta nazionale, come dimostrano le oscillazioni dello spread e le aste periodiche. Questa realtà divisa piace ai mercati finanziari e agli speculatori, ma danneggia le economie reali dei singoli paesi nei quali il costo del denaro si scosta dal tasso ufficiale deciso dalla Banca centrale europea. Infatti la ripresa è molto stentata, più bassa di quella degli Stati Uniti dove non c’è spaccatura tra economia reale ed economia finanziaria. Nasce il sospetto che, all’epoca della firma di Maastricht, si sia voluto conservare il carattere nazionale dei singoli debiti pubblici per zavorrare diversamente l’economia reale dei  singoli paesi. Con il passare degli anni e la crisi sopraggiunta nel 2008-2010, la situazione si è aggravata. I due grandi obiettivi, che ciascun membro dell’Eurozona dovrebbe raggiungere, e cioè il debito pubblico al 60 per cento del pil e il pareggio di bilancio, sono irrealizzabili, e su un ostacolo insuperabile si va a sbattere. Inoltre, scorporare dal calcolo del deficit pubblico il costo del servizio del debito è un espediente contabile, buono per le agenzie di rating, la speculazione, gli autocompiacimenti governativi e i vertici ministeriali, ma non cambia la realtà di paesi che sono costretti a impegnare, ogni anno, ingenti risorse finanziarie per rinnovare il debito in scadenza e pagare gli interessi, riducendo le risorse per gli investimenti e lo sviluppo. Anzi, è un sistema per ingrassare l’economia finanziaria. La battaglia sulla riduzione della spesa pubblica, imposta alla Grecia e sollecitata all’Italia mentre alla Germania si chiede di aumentarla per favorire consumi e importazioni dai partner (o dalla Cina?), si giustifica con l’affermazione: meno spesa pubblica, meno ricorso al debito, meno tasse. Non è così: se la spesa pubblica si contrae, riducendo le prestazioni sociali, e le tasse non aumentano, di fatto, invece, aumentano perché la stessa quantità di entrate fiscali va a coprire meno erogazioni sociali. Se poi si sostiene che solo abbattendo la spesa pubblica si potrà ridurre il debito, è come svuotare il mare con una brocca se manteniamo un tasso di crescita del pil intorno all’1 per cento.

 

Ora, se l’obiettivo è la nascita di un vero stato federale europeo, il suo atto fondativo non può essere altro che l’assunzione dei debiti dei singoli stati, come accadde negli Stati Uniti oltre due secoli fa. Non si arriverà a uno stato federale senza un debito pubblico federale. Sarà il debito pubblico europeo a creare l’Europa. Il debito pubblico è anche un baluardo a difesa della moneta, in questo caso l’euro, poiché non si abbandona una moneta in cui sono espressi i risparmi e a condizione che ci sia moneta sufficiente per sostenere l’economia reale. Senza essere ancorata a un “sano” debito pubblico, una moneta è a rischio e si comporta in modo strano. Ci felicitiamo del fatto che in pochi mesi l’euro abbia perso un quarto del suo valore rispetto al dollaro, da 1,4 a 1,1. Ma cosa dicono coloro che si aspettavano una vigorosa ripresa europea anche se solo il cambio si fosse fermato a 1,2? C’è qualcosa che non va in questa moneta così ballerina e questo qualcosa è il fatto di essere una moneta estera in cui sono espressi i debiti pubblici nazionali.

 

Il passaggio decisivo, imposto dalla logica, indipendentemente dal quando verrà affrontato, consiste(rà) nella conversione dei debiti pubblici nazionali in un unico debito pubblico federale, assicurando la sopravvivenza dell’euro. Procedendo come si fece per la conversione delle monete nella divisa unica. Si prende un certo lasso di tempo, gli ultimi due o tre anni, e si fa la media dello spread registrato da ogni singolo paese, poi lo si confronta, va da sé, con il bund tedesco a dieci anni fatto uguale a 100. Se, per esempio, lo spread medio italiano risulta pari a 125, vuol dire che 125 titoli italiani dovranno essere cambiati con 100 titoli europei, o Eurobond. Molti detentori di titoli nazionali ci perderanno, naturalmente, ma cambiare in Eurobond i titoli di un paese che potrebbe fare default sarebbe, non solo sul lungo termine, un grosso vantaggio. Nel breve termine, non solo finirebbe la paura per i possessori dei titoli degli stati a rischio default, ma verrebbe alleggerita la posizione finanziaria dei maggiori debitori, con conseguenze positive sulla loro economia reale. Riprenderebbe l’afflusso di capitali all’economia produttiva, facendo risalire l’occupazione e riducendo, sul serio, la spesa pubblica per i diversi tipi di sostegno sociale.

 

Solo così avrebbe senso affidare a organi federali la politica economica, con tutte le armonizzazioni necessarie, a partire da quella fiscale, che, altrimenti, finirà in un continuo tira e molla tra i governi dell’Eurozona. Pensare che tutti possano arrivare a una situazione finanziaria rispettosa dei parametri di Maastricht è come organizzare una corsa ciclistica che poi deve necessariamente concludersi con una volata del gruppo compatto. Come dire: aboliamo il mercato e introduciamo il Gosplan.

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