Il presidente dell'Fmi, Christine Lagarde, con Zhou Xiaochuan, governatore della Banca popolare cinese (foto LaPresse)

Così Lagarde sarà lo sponsor dell'ascesa globale dello yuan

Domenico Lombardi
Il Fondo monetario (è in rotta con Obama) trova la sua ragione d’essere nel riscatto monetario di Pechino

Creati nel 1969 per supplire, a quel tempo, alla scarsità di oro e di dollari, i Diritti speciali di prelievo (Dsp) dovevano diventare “la principale attività di riserva nel sistema monetario internazionale”, come stabilisce l’articolo VIII dello Statuto del Fondo monetario internazionale (Fmi). Eppure, nel tempo e contrariamente alle aspettative che li avevano generati, i Dsp sono stati progressivamente relegati a materia d’interesse squisitamente accademico con ben scarsa trazione presso le autorità di politica economica e gli operatori dei mercati finanziari internazionali.

 

Nel 1974, in seguito al collasso definitivo del sistema di cambi di Bretton Woods, il paniere di valute che costituivano i Dsp fu ampliato ai 16 paesi che costituivano almeno l’1 per cento del commercio mondiale. Pochi anni dopo, nel 1981, il Fmi decideva di restringere nuovamente la composizione del paniere alle principali valute internazionali – dollaro, yen, sterlina, marco e franco francese – nel tentativo di rafforzarne l’appeal. In seguito all’introduzione dell’euro, il paniere di valute si è ulteriormente ridotto. Tuttavia, il peso dei Dsp rispetto al complesso delle attività di riserva mondiale è stato sempre una frazione trascurabile del totale delle riserve mondiali, anche quando, nel vertice di Londra dell’aprile 2009, all’apice della crisi finanziaria internazionale i leader del G20 ne raccomandarono l’allocazione di 250 miliardi di dollari aggiuntivi.

 

Cosa spiega, allora, l’accresciuto interesse che in questi mesi i Dsp stanno generando in capitali come Washington o Pechino e nelle organizzazioni internazionali come il Fmi o il G20? Il fatto che le autorità monetarie cinesi stanno da tempo preparando un affondo che dovrebbe concludersi con l’inclusione del renminbi, o yuan, nel paniere dei Dsp idealmente già da quest’anno, quando il consiglio di amministrazione del Fmi deciderà sulla (ri)composizione del paniere in occasione della review che effettua con cadenza generalmente quinquennale. Perché una valuta possa aspirare a essere parte di questo club esclusivo occorre soddisfare due principali criteri. Il primo criterio riguarda la capacità esportatrice dell’economia che emette la valuta. Nel caso della Cina, c’è poco da obiettare visto che esporta ben più degli Stati Uniti e sta per diventare il primo esportatore mondiale, dopo l’Europa. L’altro criterio attiene alla convertibilità della valuta ed è qui che si condensa il nocciolo della questione.

 

Nel corso degli ultimi anni, infatti, le autorità monetarie cinesi hanno promosso un fitto reticolo di swap in valuta con numerose Banche centrali di tutto il mondo, dall’Asia all’Europa passando per l’America latina e l’Africa. Adottando una politica iperattivista volta a promuovere dal centro l’internazionalizzazione della propria valuta hanno identificato nei principali mercati internazionali delle clearing bank, da ultimo a Toronto, in grado di rifornire imprese e operatori esteri di renminbi per agevolarne l’uso. Anche come mezzo di pagamento, il renminbi è sempre più utilizzato, scavalcando progressivamente le altre valute nelle statistiche internazionali disponibili. Pertanto, la conclusione che alcuni ne traggono è che la valuta cinese è ampiamente utilizzata nelle transazioni internazionali e detenuta in misura sempre maggiore per denominare attività di riserva, pur rimanendo tecnicamente non convertibile. Tuttavia, le transazioni finanziarie nella bilancia dei pagamenti cinese non sono liberalizzate, anche se Pechino ne sta allentando le maglie, come mostrano i dati sui crescenti flussi di capitale da e per la Cina.

 

Di recente, nel suo rapporto semestrale al Congresso, il Tesoro americano ha continuato a ridimensionare il tono aggressivo usato negli scorsi anni, riconoscendo che il surplus corrente cinese nel 2014 è sceso a 210 miliardi di dollari, pari al 2,1 per cento del pil (quello della Germania è stato, per contro, di quasi 300 miliardi di dollari, pari al 7,5 per cento del pil). Con l’obiettivo di incoraggiare un atteggiamento conciliatorio da parte dell’Istituzione di Pennsylvania Avenue, la Banca centrale cinese ha molto ridimensionato i suoi interventi sul mercato dei cambi in sintonia con l’impegno che l’Amministrazione di Pechino ha assunto nel contesto del tavolo di lavoro bilaterale con Washington. Al punto che il Tesoro si limita semplicemente ad auspicare un (ulteriore) apprezzamento della valuta cinese, consapevole di avere perso il tradizionale elemento di pressione nei confronti di Pechino, che consisteva nel deplorare la manipolazione del cambio in seguito ai sostanziali interventi effettuati dalle autorità monetarie.

 

[**Video_box_2**]Se l’Amministrazione americana non ha una posizione pregiudizialmente avversa all’elevazione dello status del renminbi ma intende solo ritardarne il processo per conservare un elemento di pressione nella propria agenda bilaterale, per il Fmi l’agenda è diversa. Fallito il tentativo di far leva sul G20 per alimentare un processo di riforma della governance dell’istituzione che portasse i Brics, innanzitutto la Cina, nel gruppo di testa degli azionisti, il direttore generale, Christine Lagarde, guarda alla “democratizzazione” dei Dsp come un elemento correttivo nell’attuale, insoddisfacente quadro della governance dell’Istituzione cha la sta spingendo verso una costante, ma inesorabile marginalizzazione nel sistema monetario internazionale. Non sorprende, pertanto, che il suo staff stia considerando come introdurre maggiore flessibilità nell’interpretazione dei criteri così da facilitare l’inclusione del renminbi nel gruppo di testa delle valute del Fmi. Se anche non dovesse riuscirci stavolta, il Fmi potrebbe decidere una interim review prima della scadenza del prossimo quinquennio così da accelerarne comunque i tempi. Su questo, Pechino ha chiesto alla presidenza turca del G20 maggiore attenzione ma Ankara è divisa tra l’interesse per un generico rafforzamento dei Dsp, che intende sostenere, e l’esitazione al colpo di mano, nella consapevolezza che la lira turca non sarebbe inclusa nel caso si decidesse per un approccio più rappresentativo nella composizione del paniere in questione. Ad ogni modo, è questione di pochi mesi visto che dal prossimo novembre, dopo il summit di Antalya, il timone della presidenza passerà direttamente a Pechino.