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Rigenerare il sindacato oltre l'ideologia dell'intrattenimento

Alberto Brambilla
Conversazione con Marco Bentivogli (metalmeccanici Fim-Cisl). Come superare il sindacalismo politicante

Roma. Se dieci anni fa avessero chiesto a Marco Bentivogli, segretario generale dei metalmeccanici Fim-Cisl, se il sindacato fosse un corpo morto, egli avrebbe restituito l’immagine di un’organizzazione con i “secoli contati”, quindi con prospettive di lunghissimo periodo. Oggi però “per tantissime ragioni siamo arrivati al dunque”, dice al Foglio. Perché? “Il conservatorismo e l’incapacità di generare idee nuove fanno sì che il sindacato sia poco sentito dai lavoratori come organizzazione capace di riflettere l’esigenza di maggiore protagonismo nel lavoro. Serve una sterzata altrimenti è condannato al ruolo simbolico di opposizione antagonista o all’autoreferenzialità piegata alle esigenze dei capibastone. Abbiamo avviato attività in tre direttrici: scelte radicali, rifondative, rigeneratrici; tre ‘R’”. Slogan a parte, come restituire la sua ragion d’essere a un’organizzazione nata nell’Ottocento? “Il principio di unire le persone secondo giustizia sociale oramai suona sordo. Per quanto riguarda la Fim-Cisl, investiamo nella formazione economico-giuridica con la scuola per quadri ad Amelia (Terni) ed entro il 2015 accorperemo le associazioni di categoria Fim e Femca (metalmeccanici con chimica, tessile, energia) per arrivare a un’unica federazione dell’industria. Più in generale va fermata la proliferazione delle sigle, senza paletti preconcetti al sindacato unico come approdo. Ma non per legge. Ricordo che Cisl lo propose a Cgil e Uil nel 1996 e che Romano Prodi lo invoca oggi. Il tema è che in altri paesi ci sono uno o due grandi sindacati, in Fiat abbiamo sette sigle. E si arriva al paradosso per cui la proliferazione è inversamente proporzionale alla durezza delle condizioni di lavoro: sono 11 le sigle dei dipendenti della Camera dei deputati”. Non è assurdo che in tempi di crisi non aumentano gli iscritti in termini assoluti ma aumentano le associazioni? “Il pluralismo sindacale, espresso da Cgil, Cisl e Uil, è stato un grande valore. Ma mi chiedo: è attuale la divisione tra sigle? O è importante averle perché così si hanno tanti ruoli da coprire? Le microscissioni sono una prassi usata per garantire ‘incarichi-etichette’ in sperdute associazioni di provincia. Idem per le associazioni datoriali. Più sigle ci sono, più l’azione sindacale perde efficacia e s’incrosta su argomenti ideologici. Dove c’è proliferazione, spesso il sindacato conta nulla”.

 

Conta poco in ogni caso se non viene considerato dai lavoratori un “delegato” responsabile a trattare con l’azienda non solo le condizioni salariali ma la gestione dei processi produttivi. “Bisogna smaltire gli avanzi dell’estremismo ideologico per avere l’autorevolezza di proporre una strategia sui modelli di cogestione. Le sfide dell’aumento della produttività poste da Sergio Marchionne in Fca permettono al singolo operaio di stare dentro l’organizzazione del lavoro, ma siamo lontani dalla partecipazione alle scelte strategiche d’impresa dei modelli nordeuropei. Il contratto aziendale doveva puntare in massima parte alla produttività ma per pigrizia delle parti s’è limitato a distribuire del denaro e noi, come sindacato, ci siamo accontentati senza rivendicare la possibilità di partecipare all’organizzazione. Se Marchionne non sposa appieno la partecipazione, andando oltre il coinvolgimento del singolo dipendente, compirà una rivoluzione a metà”. Ha fatto uscire la contrattazione di secondo livello dalla clandestinità e non è poco. “Certo, ma che la contrattazione aziendale stia vincendo sul campo è una finzione, purtroppo. La crisi ha portato via alcuni di questi contratti, peraltro il governo Renzi non li agevola: ha disincentivato il salario di produttività non rinnovando, come sembra, la cedolare secca. Ciò non toglie l’urgenza per il sindacato di raggiungere i lavoratori in una condizione di lavoro decentrato. Una contrattazione territoriale e di filiera può essere una soluzione per arrivare a un livello condiviso degli obiettivi di produttività e quindi creare settori omogenei e forti. Uno dei problemi del contratto nazionale è che distribuiva inflazione e tutelava il potere d’acquisto. Con la deflazione ciò è venuto meno. Non è superato in sé ma per rimanere elemento di garanzia deve innovarsi a partire dal riflesso contrattuale della creazione di poltrone che ha generato 705 contratti nazionali: una follia!”.
Alla Fca di Melfi l’età media di 1.500 nuovi assunti è 25 anni: tuttavia accostare la parola “giovani” a “sindacato” pare un ossimoro. “Il problema è serio. In Europa in media 1 giovane su 10 è iscritto al sindacato: è pochissimo. C’è necessità di svecchiamento, non di rottamazione, ma è chiaro che se i dirigenti sono in maggioranza over 60 servono orizzonti diversi… Il punto è – dice Bentivogli che ha 45 anni – che il passaggio di testimone generazionale è un dovere, oppure ci si trasforma da associazioni vitali in associazioni di reduci. La curvatura del sindacato politicante è ben rappresentata dal sindacato d’intrattenimento che va forte in tv ed è tanto spettacolare quanto inutile rispetto al rinnovamento dei processi economici”. L’ossessione dei sindacati sono i pensionati, non i ragazzi. “Il sindacato s’è occupato principalmente delle persone in pensione con il retributivo (il calcolo dell’assegno pensionistico in base agli ultimi stipendi percepiti, ndr) ma nel 2020 passeremo al contributivo (in base ai contributi versati). Significa che negli ultimi 10 anni abbiamo pagato con la fiscalità generale chi non ha versato i contributi per gli importi ricevuti, gravando sui giovani. Se questo è il patto generazionale, è una fregatura. Col passaggio definitivo al contributivo, un operaio che lascerà il lavoro solo a 70 anni con 1.400 euro di salario riceverà 650 euro di pensione. Mi chiedo: perché la Corte costituzionale considera ‘diritto acquisito’ l’indicizzazione delle pensioni alte, spesso con importi superiori del 60 per cento dei contributi versati? I diritti acquisiti sono una favoletta: consideriamo i diritti dei pensionati e non quelli di chi fa lavori usuranti o dei più giovani? Il dibattito sulle pensioni è logoro se si parte dalla sentenza della Consulta. La fortuna della classe politica e del ceto sindacale è che i ragazzi non protestano se avranno pensioni misere, e quando li vedono taciturni lo confondono con un silenzio assenso ma è il peggiore sintomo di un grande distacco”.

 

[**Video_box_2**]Col Jobs Act i nuovi assunti sono tornati in gioco. “Anziché occuparci di ideologia nei talk-show e dire che il Jobs Act è il male – chi ascolta sa bene che è meglio avere un contratto a tempo indeterminato di uno a termine – sarebbe utile discutere su come includere quegli 85 nuovi lavoratori su 100, avviati al lavoro ogni anno, che non hanno alcuna tutela prevista dallo Statuto, non solo l’articolo 18 che è stato un feticcio. Il Jobs Act ha alcuni aspetti negativi su cui lavorare, ma altri positivi come l’apprendistato di primo livello. Il sindacato non cura abbastanza la transizione scuola-lavoro. Nei paesi scandinavi s’incarica del tutoraggio per fare da cerniera tra formazione e vita lavorativa”. Che industria avremo senza competenze specialistiche? “Servono alte professionalità. Non parlo di bullonerie. Il mondo è alla vigilia della quarta rivoluzione industriale. Il pezzo di manifatturiero da rilanciare sarà nell’industria 4.0 in cui l’uomo è centrale per la gestione dei processi con tecnologie avanzate: per la manifattura è un salto paragonabile a quello dai primi pc agli smartphone di oggi per capirci. In Germania e Cina è quasi realtà, qui siamo in pochi a lavorarci. Abbiamo il World class manufacturing alla Fca di Pomigliano, la fabbrica più avanzata d’Italia. Un sondaggio Cisl su 5.000 operai rivela luci e ombre ma dice che per livello di pulizia, organizzazione e cura ergonomica, la soddisfazione è alta. Se il lavoratore è contento e motivato farà schifo dirlo nei talk-show, ma è così”.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.