David Cameron (foto LaPresse)

Cameroniani cercansi

Francesco Galietti
L’officina degli analisti di rischio politico, la cui clientela è in non piccola parte costituita dai grandi nomi dalla finanza globale, non fa mai sosta e sta rapidamente ricalibrando i propri esercizi di scenaristica.

L’officina degli analisti di rischio politico, la cui clientela è in non piccola parte costituita dai grandi nomi dalla finanza globale, non fa mai sosta e sta rapidamente ricalibrando i propri esercizi di scenaristica. Oggetto di particolare interesse è l’idea del premier britannico David Cameron di far precedere il referendum “in or out” sulla permanenza del Regno Unito nella Ue da una negoziazione con Bruxelles su competenze attribuite alla Commissione.

 

La scelta di Cameron, inizialmente vissuta come un pericolosissimo elemento destabilizzante per il destino dell’intero ordine occidentale, è ora interpretata come un’opportunità. Cameron fa meno paura di qualche mese fa, e forse in questo un ruolo (paradossale) lo gioca il successo dello Scottish National Party (Snp) che riflette la drastica crescita della politica scozzese dopo il referendum del settembre 2014. L’Snp avrebbe avuto maggiore peso in caso di vittoria del Labour, tuttavia dall’alto dei suoi 56 parlamentari le preoccupazioni degli scozzesi avranno ampia circolazione a Londra. E proprio la Scozia è la regione più filo Ue del Regno Unito, quindi ogni ammiccamento ai falchi euroscettici dei Tory avrebbe come effetto un inasprimento nelle posizioni indipendentistiche. Questa dinamica è per molti versi rassicurante nei confronti della comunità finanziaria. La relativa inoffensività non toglie che Cameron abbia le carte in regola per operare un potente esorcismo sul corpo di un progetto nato da ambizioni alte ma degradato a coacervo di burocrazie capaci di sottrarre sempre più poteri ai singoli stati senza passare da un riordino dei trattati. La sottrazione è in particolare avvenuta mediante il ricorso sottotraccia a regolamenti, come quelli che hanno introdotto elementi di rigidità contabile (Two pack, Six pack, Fiscal compact), anziché passando da una modifica dei trattati. In Italia non manca chi ha da tempo denunciato questo fenomeno – è il caso di Giuseppe Guarino – ma nessun governo ha avuto la lucidità di esigere una discussione sull’architettura complessiva europea.

 

[**Video_box_2**]Anziché accodarsi ad Albione, Roma preferisce insistere in queste ore per mutare “il set di regole esistenti” che “ha dimostrato di essere rigido e inadatto a fronteggiare una recessione prolungata e una crescita debole, propiziando politiche procicliche”. E’ evidente così che Palazzo Chigi preferisce un appiattimento su posizioni merkeliane, né intende ostacolare l’ennesima intesa franco-tedesca all’insegna dell’Europa a due velocità. Se Renzi avesse una visione diversa, le sedi per manifestarla non mancherebbero. Sul piano istituzionale, il bilancio del semestre di presidenza europeo italiano nel 2014 non si è caratterizzato per discussioni fondamentali. Sul piano politico, resta forse l’occasione del congresso del Partito socialista europeo, che dall’11 al 13 giugno si riunirà a Budapest per eleggere il proprio presidente. Ma il premier italiano finora non ha usato la triplice crisi europea (del debito, mediterranea e ucraina) per intavolare un ripensamento dell’architettura europea, e tantomeno per imprimere un’accelerazione ai negoziati atlantici sul Ttip, l’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Il treno inglese gli offre un’altra chance.