Angela Merkel con Matteo Renzi (foto LaPresse)

Perché il governo Renzi, per convincere Merkel, ha mollato gli Eurobond

Marco Valerio Lo Prete
Fattibilità economica e politica di una nuova proposta cara a Palazzo Chigi per far compiere un salto all'Unione economica e monetaria: il sussidio europeo di disoccupazione.

    Oggi è andata in onda, su Radio Radicale, la mia rubrica Oikonomia. A questo link l'audio, di seguito invece il testo.

     

    Il governo italiano, in vista del vertice europeo dei capi di governo che si terrà a fine giugno, ha appena inviato a Bruxelles e Francoforte un documento intitolato “Completare e rafforzare l’Unione economica e monetaria” (il Foglio lo ha anticipato qui domenica scorsa). Un documento cui hanno lavorato in particolare il sottosegretario Sandro Gozi, i consiglieri di Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia di Pier Carlo Padoan, e che dovrà animare il dibattito in vista delle proposte che invece saranno presentate dai cosiddetti “Quattro Presidenti”, cioè il presidente della Commissione Juncker, il presidente della Banca centrale europea Draghi, poi il presidente dell’Eurogruppo e quello del Consiglio europeo.

     

    Tra i tanti spunti politici e teorici offerti da questo documento, approfondiamo oggi l’idea che viene abbozzata di un meccanismo o sussidio comune tra i paesi europei contro la disoccupazione. Parliamo dunque di un ambito di misure diverse dal più vasto “reddito di cittadinanza”, di cui si è parlato di recente in Italia – non sempre con approccio realistico – indirizzato invece a tutti i soggetti che abbiano un reddito inferiore a una certa soglia e non solo dei disoccupati. Il governo Renzi, nel suo documento, scrive che “la resistenza politica a un maggiore coordinamento e a una condivisione di rischi” tra i paesi dell’Eurozona “genera instabilità e limita le chance di implementare politiche più efficaci e lungimiranti”. Da qui l’idea di un “schema di assicurazione anti disoccupazione” per “smussare le fluttuazioni del ciclo economico” e “stimolare la convergenza di istituzioni del mercato del lavoro differenti”, e “aggiungere una dimensione e un incentivo europei”.

     

    L’idea non è nuova a livello teorico, ma è indubbio che il Governo Renzi vi stia dedicando da mesi un’inedita attenzione istituzionale. Già alla fine dello scorso anno la presidenza italiana del semestre Ue chiede al think tank europeo Bruegel di condurre una prima analisi; sempre alla fine del 2014 un altro pensatoio di Bruxelles, il Ceps, Centre for european policy studies, presentò un primo studio su input ufficiale del Parlamento europeo. Ancora oggi però, anche se il tasso di disoccupazione nell’Ue è all’11,3%, dal 7% che era nel 2009, la fattibilità economica, politica e giuridica di quello che alcuni chiamano “European unemployment insurance system” è tutt’altro che scontata.

     

    Sicuro è invece l’obiettivo macroeconomico connesso alla costituzione di quello che gli economisti chiamano “uno stabilizzatore automatico” comune all’Eurozona o al continente. Si tratta cioè di offrire una risposta coesa e flessibile, e soprattutto da non discutere ogni volta in faticosi vertici europei, per fronteggiare choc che colpiscono con intensità diversa i paesi membri. Una politica anticiclica “all’americana”. Secondo molti analisti, infatti, il nostro continente avrebbe sofferto di più la crisi anche per il fatto di aver messo in campo politiche pro-cicliche, cioè che si muovevano nella stessa direzione dell’attività economica. Infatti mentre il pil crollava si è proceduto ovunque con una stretta fiscale, in Italia soprattutto aumentando le tasse, senza fare differenze tra i paesi con le finanze pubbliche pericolanti e quelli che invece si sarebbero potuti permettere forme di stimolo fiscale all’economia. Nell’ipotesi di uno schema di disoccupazione comunque, invece, si potrebbe istituire un fondo comune in cui gli stati membri dell’Ue, o in altra ipotesi della sola Eurozona, versano ogni anno lo 0,1 per cento del pil. Dopodiché il fondo trasferisce risorse agli stati membri nei momenti in cui questi attraversano difficoltà estreme sul fronte dell’occupazione. Secondo le ipotesi del Ceps, si può limitare l’utilizzo di queste risorse comuni ai casi di recessione grave, cioè quando il tasso di disoccupazione diverge in maniera sostanziale dalla sua media di lungo periodo. A queste condizioni, gli accantonamenti previsti sarebbero sufficienti a coprire il 75 per cento dei disoccupati a breve termine per il 40 per cento del loro stipendio lordo.

     

    Un altro risultato economico di questa misura, secondo molti analisti, sarebbe quella di uniformare almeno un po’ le condizioni giuridiche ed economiche di lavoratori e disoccupati in tutto il continente, facilitando la mobilità della forza lavoro tra i paesi dell’Unione.

     

    La proposta di un meccanismo comune anti disoccupazione, inoltre, ha dimostrato finora di avere un discreto appeal politico anche in pensatori di formazione diversa, sia essa socialdemocratica o liberista. A differenza della condivisione di rischi da attuare attraverso gli Eurobond, un vecchio cavallo di battaglia di precedenti Governi italiani che prevedeva la mutualizzazione dei debiti pubblici tra paesi dell’euro, questo meccanismo creerebbe legami di “solidarietà” tra individui, più che tra Stati. Il sussidio infatti può essere concepito per non durare al di là del tempo necessario a fronteggiare choc economici gravi, instaurando sì legami di solidarietà fiscale e forme di trasferimento fiscale, ma a tempo determinato e soprattutto fra gruppi di individui più che tra Stati sovrani.

     

    Dal 2008 al 2012, se questo meccanismo fosse stato in vigore, la Spagna avrebbe ricevuto aiuti per un ammontare pari al 6,7 per cento del suo pil; e il suo pil al 2012 sarebbe stato in terreno positivo invece che scendere di quasi 5 punti. L’Italia avrebbe avuto un contributo minimo (pari allo 0,02 per cento del pil) soltanto nel 2012. Oggi a giovarsi del fondo sarebbero alcuni paesi periferici, ma alla fine degli anni 90 sarebbe stata la Germania a essere finanziata dagli altri paesi non colpiti da choc gravi. Se ciò sarà sufficiente per superare le ostilità dell’elettorato e del governo tedesco, finora restii a ogni forma di risk-pooling con elettori e paesi della cosiddetta “periferia”, è ancora da capire.

     

    Certo è che lo stesso Governo italiano, quando nel suo documento ipotizza di far confluire risorse nazionali in un fondo comune “via via che gli aggiustamenti del mercato del lavoro hanno effetto e la disoccupazione viene ridotta”, sembra, nelle migliore delle ipotesi, voler rafforzare l’Unione monetaria in vista della prossima crisi. Come a dire che nel breve termine sarà difficile mettere su un’assicurazione comune anti-disoccupazione.