"Ogni marinaio non è soltanto un navigatore, ma anche un commerciante e un soldato", William Petty (economista, "inventore" del pil, 1623-1687). Nella foto: “Numbers in color” di Jasper Johns

Il pil è diventato come i sondaggi

Alberto Brambilla
Cioè: è un indicatore che non funziona più. Ok, e come se ne esce? Consumi d’energia, viaggi, scontrini, e altri indicatori efficaci, alternativi e consigliati per valutare se un paese va o no (compresa l’Italia).

La produzione della ricchezza è stata per secoli l’espressione della potenza nazionale. Nel 1665 William Petty, erudito e pioniere della scienza economica, per la prima volta produceva stime aggregate di reddito, spese, possedimenti terrieri e altro per mostrare la capacità di resistenza britannica allo sforzo bellico contro gli olandesi. Durante il Secondo conflitto mondiale, la Germania incluse nel prodotto interno lordo una marea di spesa pubblica per gonfiare il petto davanti agli Stati Uniti. Ancora oggi l’India sfida la Cina a suon di statistiche. Da anni economisti e accademici si pongono interrogativi sull’utilità del pil – la misura sintetica del valore monetario di beni e servizi prodotti in un anno in un determinato paese – e c’è un movimento globale trasversale tra Ocse, Nazioni unite, e Commissione europea per superarlo valutando il benessere. O addirittura la felicità delle nazioni, come nell’arcinoto caso del Bhutan (qualcuno poi dovrà spiegare se i bhutanesi sono così felici nel dovere compilare minuziosi sondaggi ogni mese sul loro umore). Il saggio “Gdp: A Brief But Affectionate History” (Princeton University Press) di Diane Coyle, economista ed ex consigliera del Tesoro britannico, conviene sul fatto che il pil sia la metrica migliore per valutare la crescita. Tuttavia ci sono indicatori profondi in grado di intercettare prima e meglio le tendenze in atto dalle quali poi dedurre se c’è, quanto è solida e consistente l’attività economica di un paese. In tempi di dispute sulla ripresa (o sulla ripresina) italiana è utile metterli in fila.

 

I consumi energetici sono considerati nei modelli di “nowcasting” – previsioni sul presente – degli ottimi indicatori per cogliere la tendenza dell’attività economica e anche dei consumi con tempestività perché hanno una velocità di raccolta più rapida rispetto agli indicatori tradizionali. E’ bene osservarli a fondo. Bisogna però distinguere tra i consumi di gas, quelli per la generazione di energia elettrica e dei prodotti petroliferi. Nei primi tre mesi di quest’anno i consumi di gas in Italia sono aumentati del 10,5 per cento (dati Enel): un incremento significativo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente ma non straordinario perché riconducibile principalmente a consumi residenziali (riscaldamento) visto l’irrigidimento delle temperature nei primi mesi dell’anno. I consumi per la generazione di energia elettrica aumentano anch’essi, questo è un sensibile indicatore potenziale della ripresa e può significare che le aziende “chiedono” energia ma non è detto che nel farlo producano valore – e il dato è poi “sporcato”, ancora una volta, dai consumi domestici e dalle condizioni atmosferiche. L’analisi più approfondita per valutare una certa vitalità economica è quella dei consumi di prodotti petroliferi come gasolio, nafta e benzine. Ispi Energy Watch, osservatorio sull’energia del think tank milanese Ispi (Istituto di politica internazionale), ha elaborato le previsioni dei consumi petroliferi per la fine del 2015 usando i dati preconsuntivi pubblicati in aprile dal ministero dello Sviluppo economico, cercando di intercettare la tendenza di fondo. Il risultato è “sorprendente”, dice Matteo Villa, ricercatore e autore delle originali elaborazioni (vedi grafico 1, in questa pagina). “Con i dati disponibili a dicembre stimavamo che i consumi sarebbero calati del 3,2 per cento circa alla fine di quest’anno. Ma a quattro mesi di distanza, la situazione è ribaltata: ora prevediamo un aumento dei consumi petroliferi totali dell’1,3 per cento e del solo diesel del 2,8”, dice Villa. “Siccome è un indicatore su base mensile, mentre abbiamo una crescita trimestrale del pil che può essere rivisto parecchio alla conclusione dell’anno, è rivelatore dell’attività economica del paese perché significa non solo che si viaggia in macchina, e ci si sposta, magari per lavoro, ma vuol dire soprattutto che si muovono i mezzi pesanti, commerciali, che vanno a gasolio”, aggiunge.

 

Le immatricolazioni di veicoli – un dato amministrativo, non statistico – in aprile sono state ancora una volta positive, segno tangibile di un’inversione di tendenza in consolidamento, e hanno fatto parlare di un ritorno di fiamma dei consumatori per l’automobile in Europa (più 8,1 per cento) e in Italia (più 24,2). Tuttavia in Italia l’aumento degli acquisti da parte dei privati è legato al noleggio a breve e a lungo termine e soprattutto all’assistenza delle case automobilistiche e delle reti di distribuzione che “si stanno sostituendo allo stato nell’esigenza di ringiovanire il parco circolante”, dice Romano Valente, direttore generale dell’Unrae (associazione delle case estere operanti sul mercato italiano). Più significativa è l’affermata tendenza al miglioramento delle vendite di veicoli da lavoro, come gli autocarri (più 7,2 per cento in aprile, dati Unrae), anch’essa incentivata e determinata dall’esigenza di rinnovare un parco veicoli obsoleto, ma pur sempre predittiva di un flusso di circolazione delle merci più sostenuto. L’andamento, comunque, promette bene per la fine anno (vedi grafico 2).

 

I trasporti e il flusso di passeggeri negli aeroporti sono in grado sia di fotografare una tendenza in corso (positiva o negativa) e anche di prevedere la crescita economica con una buona approssimazione. Il numero di passeggeri in transito negli aeroporti italiani è in crescita del 5,8 per cento nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2014: un dato interessante perché non è scontato vedere un aumento di viaggiatori/turisti nel periodo invernale generalmente fiacco e critico per le compagnie aeree. Inoltre nel 2012 è nato l’Uvet travel index, un indicatore costruito sulla base di un modello statistico-econometrico multivariato che stima l’andamento dell’economia e delle esportazioni desumendolo dalle dinamiche dei viaggi d’affari con l’ambizione di prevedere il pil fornito dall’Istat con quarantacinque giorni d’anticipo sulla pubblicazione delle statistiche definitive. L’indice, affinato negli anni, è pubblicato con cadenza trimestrale e viene elaborato dal think tank European House-Ambrosetti sulla base dei macrodati (biglietti aerei, ferroviari, spostamenti in auto, prenotazioni alberghiere) forniti da Uvet (un polo di distribuzione turistica che con la società dedicata Uvet Anex, partecipata da American Express, monitora i viaggi dei manager delle aziende clienti italiane ed estere). Secondo Ambrosetti, la correlazione tra gli spostamenti degli uomini d’affari e l’attività economica è del 93 per cento, quindi affidabile (vedi grafico 3). L’Uvet travel index, ad esempio, prevedeva per il primo trimestre di quest’anno un ritorno del segno più davanti al pil, dopo quattordici trimestri negativi, ovvero un aumento dello 0,007 per cento. Non troppo lontano dalle stime comunicate dall’Istat a inizio anno (più 0,1) poi migliorate nelle stime preliminari del primo trimestre pubblicate il 13 maggio che stanno facendo discutere (più 0,3 per cento) – e a proposito, la ripresa della ricostruzione delle scorte sarà una voce interessante da osservare perché vuol dire che le imprese tornano a comprare in quanto pensano di vendere. Va poi tenuto conto che dal 2014 le statistiche ufficiali includono nel calcolo del pil il traffico di droga, la prostituzione e l’economia sommersa dando un certo sprint al risultato statistico. Ma, certo, non troverete nell’indice Uvet gli spostamenti di un “uomo d’affari” affiliato al Dragone verde, al Sole rosso, o alla Società nera – la triade mafiosa cinese – interessato al traffico di merci illegali dalla base di Milano verso il sud Europa con la complicità della camorra napoletana o della sacra corona unita pugliese. Ma torniamo a terra, nella pancia delle imprese manifatturiere.


Grafico 1: andamento dei consumi di carburanti e previsioni a fine anno (Ispi, Matteo Villa)


Grafico 2: tendenza immatricolazioni veicoli passeggeri (elaborazione Ispi su dati min. Trasporti)


Grafico 3: correlazione tra pil e viaggi dei manager (elaborazione TEH-Ambrosetti su dati Uvet)


I settori a monte del processo produttivo – beni intermedi, chimica, carta e packaging – a vocazione esportatrice sono sensibili ai venti di ripresa o di recessione, come pure alle fluttuazioni dei cambi valutari, e sono utili a valutare lo stadio dei progressi (o dei peggioramenti) in atto. La società di consulenza per aziende Prometeia ha elaborato un suo indice – chiamato “indicatore di fusione della ripresa” – che monitora trenta settori composti dalle imprese che operano in tutti i campi industriali, ivi compresi quelli prima elencati. Se l’indicatore supera i 50 punti significa che l’economia è in espansione, un indizio di ripresa, altrimenti è stagnante. A febbraio-marzo l’indicatore ha superato di poco la soglia discriminante. Secondo Stefania Tomasini, responsabile previsioni e analisi economiche di Prometeia, un simile aumento non si verificava dall’anno scorso, quando c’era stato uno spunto di ripresa poi smentito. “Speriamo che non sia un altro fuoco di paglia – dice Tomasini al Foglio – ma ci sono elementi per dire che la ripresa sia davvero avviata”.

 

A valle della filiera produttiva si trovano degli altri indicatori interessanti per captare il battito dell’economia e fare “forecasting”, previsioni sul futuro. Bisogna sbirciare nei supermercati, guardare nei carrelli della spesa, ascoltare il parere delle famiglie sulla loro medesima condizione. Le imprese del largo consumo sono un termometro utile. La Gs1 Italy/Indicod-Ecr è una società che vigila sul rispetto degli standard globali di tracciabilità lungo tutta la filiera dei prodotti di marca e due volte all’anno chiede alle 35 mila aziende sue associate delle valutazioni su andamento dell’economia e previsioni del fatturato. A inizio 2015 per la prima volta dopo molte rilevazioni negative le aziende segnalavano una diminuzione delle perdite rispetto al passato e un timido guadagno per i prodotti della grande distribuzione (dal meno 1,2 per cento del giro d’affari dell’anno scorso, al più 0,9 di inizio anno). La tendenza è corroborata dai dati elaborati dalla società di consulenza Nielsen sulle vendite dei poli della grande distribuzione – supermercati, ipermercati – e dei piccoli esercizi. Nel primo trimestre, dopo tre anni di contrazioni, s’è registrato un aumento delle vendite di beni di consumo (dell’1,9 per cento). In Basilicata la crescita è stata superiore alla media nazionale per volume (più 12,5) e per valore (più 8,3) di vendite, secondo Francesco Pugliese, ad di Conad, una catena di supermercati, che ha collegato la tendenza positiva all’assunzione di almeno 1.500 addetti nello stabilimento Fiat-Chrysler di Melfi. A volere cercare col proverbiale lanternino si può guardare un dato strategico per i manager di supermercati, ovvero la “battuta” dello scontrino, cioè quanto spende chi fa spesa.

 

Le statistiche sulla fiducia dei consumatori non sempre riflettono la realtà perché possono essere influenzate dai media. A inizio anno c’è stato un aumento sostenuto della fiducia dei consumatori e delle imprese (110,7 e 108,2 punti) spinto dall’enfasi mediatica concessa a buone notizie, come l’espansione monetaria della Banca centrale europea e il ribasso del petrolio, ma una volta sgonfiata la “bolla” si è visto un calo a marzo (103 e 102,1 punti). L’indice complessivo coglie l’umore degli attori economici fondamentali ma per evitare inganni e avere indizi concreti sulla loro condizione reale bisogna cercare in una sottovoce che lo compone. Infatti il “giudizio sulla condizione del bilancio famigliare” calcolato dall’Istat dopotutto è in progressivo miglioramento: da meno 17 punti nel dicembre scorso a meno 8 in aprile.

 

[**Video_box_2**]La girandola mediatica è spesso fuorviante quando si parla di indici sociologici interessanti, per di più controversi. Il numero di suicidi degli imprenditori e dei disoccupati ha avuto un’eccessiva fama negli anni recenti. Ma nessuno ha evidenziato con altrettanta enfasi che stanno diminuendo. Il laboratorio di ricerca sociologica Link Lab tiene conto della serie storica: i suicidi sono stati 89 nel 2012, 149 nel 2013, 201 nel 2014 (il picco nel secondo trimestre) e dagli ultimi mesi dell’anno scorso si registra una “significativa diminuzione” (12 casi in agosto, 10 a novembre, 11 a dicembre). La tendenza non è quella di “un’escalation drammatica”, una “strage”, ma il contrario e non è stato raccontato dai telegiornali.

 

Il tentativo di inferire una tendenza precisa per via induttiva ci porta alla prossima frontiera dell’analisi congiunturale, ovvero i big data che possono aiutare in tempo reale a capire certi fenomeni ma non essendo statisticamente rappresentativi sono molto scivolosi. Le agenzie nazionali di statistica si stanno attrezzando per comprenderli. Google è all’avanguardia nell’analizzarli ma i risultati sono inaffidabili. Ad esempio, cercare di capire l’andamento di un’epidemia influenzale sulla base della frequenza con la quale gli internauti cercavano la parola “influenza” ha prodotto esiti discutibili. C’è una grande partita sui big data e si potrebbe arrivare a contare le strisciate dei bancomat o i consumi al ristorante. Tuttavia, come detto, non si può procedere a intuito. Vedi la celebre frase “i ristoranti sono pieni” del Cav. (anche se in effetti…) oppure “le lunghissime file ai caselli autostradali”. Chi mangia al ristorante o va al cinema potrebbe avere rinunciato alle vacanze e accontentarsi di un’uscita serale. Allo stesso modo chi trascorre un periodo di villeggiatura in Italia può avere rinunciato a una trasferta all’estero. Insomma è come “guardare i ricchi signori che mangiano il gelato”. Eppure si può fare la prova del nove per intuire la consistenza della ripresa con un buon esperimento da uomo della strada. Lo consigliava l’economista canadese Harry Johnson anni fa come ci racconta il nostro editorialista e già ministro delle Finanze Francesco Forte: il migliore indicatore di una ripresa dei consumi è il negozio del barbiere, diceva Johnson. Se è affollato vuol dire che pure gli uomini – che non sono certo dei campioni di cosmetica – hanno abbastanza soldi per darsi una ripulita, cosa altrimenti rinunciabile. Provate a verificare.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.