Pericolosi paradossi verdi

Alberto Brambilla
L’Italia ha seguito quasi alla perfezione l’oneroso esempio della rivoluzione verde tedesca, la “Energiewende”, con effetti paradossali. Se i sussidi alle rinnovabili costano come le importazioni di gas, nel mercato qualcosa non va.

L’Italia ha seguito quasi alla perfezione l’oneroso esempio della rivoluzione verde tedesca, la “Energiewende”, con effetti paradossali. Ispi Energy Watch, blog collettivo del think tank milanese coordinato da Massimo Nicolazzi (già Eni, Lukoil e Centrex Europe) sulla base dei dati del Gestore dei servizi energetici (Gse), ha calcolato che nel 2014 il costo per lo stato delle energie rinnovabili ha toccato i 15,8 miliardi di euro – di cui 13,4 di puri incentivi pubblici – e ha quindi superato per la prima volta il costo complessivo delle importazioni di gas naturale pari a 14,8 miliardi. Gli autori ammettono che il paragone è ardito (il costo di una materia prima non ha nulla a che fare con un incentivo di qualsiasi natura) e che l’effetto è il risultato di una particolare congiunzione rara (sussidi al massimo, consumi degli idrocarburi in calo perdipiù a prezzi ridotti).

 

Ma il divertissement dimostra che l’Italia paga un prezzo inferiore per sostenere la sua dipendenza energetica dall’estero di quanto faccia per gonfiare le rinnovabili. Sapere che il consumo di energia generata da fonti di nuova generazione cresce, col fotovoltaico in testa, potrà essere motivo d’orgoglio per i movimenti ambientalisti. Ma spingendo l’analogia un po’ più in là scopriamo che i soli incentivi corrisposti al solare (30,7 centesimi per kWh) sono sette volte il prezzo del gas naturale (2,5 centesimi di euro per kWh) e quindi l’aggravio eccessivo dei costi si scaricherà sulla bolletta elettrica che invece di alleggerirsi significativamente per effetto del costo inferiore degli idrocarburi avrà uno sconto di appena l’1,1 per cento nel prossimo trimestre dell’anno, secondo l’Autorità per l’energia (Aeegsi).

 

La doccia di sussidi alle rinnovabili, diventata paradigma europeo, ha portato l’Italia a raggiungere gli obiettivi dell’agenda europea 2020 – 17 per cento di consumo da fonti alternative – già nel 2013, con un anticipo di sette anni sulla scadenza, secondo dati Eurostat pubblicati lo scorso marzo. Non è un bene. Non solo l’Italia non ha creato una filiera nazionale – gli impianti italiani sono fatti per la maggior parte con materiale importato dall’estero, Cina e Germania – ma ha anche deciso di rendere quasi anti-economica la produzione di energia da gas naturale. Enel ad esempio ha avviato la chiusura degli impianti a fine corsa o considerati onerosi, e programma di riconvertire 23 centrali ad altro uso.

 

[**Video_box_2**]Tuttavia ci sarà ancora bisogno delle centrali termoelettriche per garantire la modulazione dell’energia – che le rinnovabili per loro natura non permettono – e per supplire all’intermittenza del solare e dell’eolico, inefficaci in giorni di pioggia o bonaccia. Gli operatori tradizionali invocano anch’essi compensazioni per i soldi persi, con chemi di remunerazione della capacità produttiva. E se, come segnala l’Ispi, gli incentivi pubblici “verdi” si stanno mangiando il mercato, finiremo col dovere offrire una stampella di stato anche al gas, dopo averlo umiliato. Il governo Berlusconi, di centrodestra, con il cosiddetto “salva Alcoa”, aveva dato il la al meccanismo scellerato nel 2010. Il governo di Matteo Renzi, di centrosinistra, l’anno scorso ha provato a rimediare tagliando con effetto retroattivo gli incentivi forniti ai produttori fotovoltaici che avevano in alcuni casi creato delle posizioni di rendita approfittando  della generosa remunerazione sul capitale investito. Ma i risparmi finanziari finora realizzati, utili a ridurre la bolletta delle piccole imprese, sono esigui rispetto alla mole dei sussidi e lo schema di incentivazione – al di là del solare – andrà rivisto per premiare le tecnologie più efficienti.

 

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.