Cosa cambia se Coca-Cola supera la muraglia di Pechino

Giancarlo Salemi
Il governo cinese accetta le lusinghe americane al suo colosso delle bevande. Difese abbassate. Lo spazio di manovra dell’Italia.

Può succedere anche questo. Che la Coca-Cola, simbolo tanto amato quanto odiato dell'imperialismo americano, decida di comprarsi uno dei colossi cinesi di bibite analcoliche più grande del sud est asiatico, China Culiangwang Bevande Holdings, gruppo quotato alla Borsa di Hong Kong con un'offerta di 400 milioni di dollari.  E che il governo di Pechino, uno dei pochi baluardi di puro comunismo rimasti al mondo, non dica subito di no allo yankee a stelle e strisce, ma che valuterà l'offerta per il bene del suo popolo.

 

Rivoluzione inimmaginabile fino a qualche anno fa che fa capire la trasformazione in atto a Pechino. Perché la Cina non è solo un Dragone pronto a mangiarsi le aziende straniere – vedi Pirelli, Ferretti o Fiorucci – ma lentamente sta abbassando il "ponte levatoio e aprendo la sua fortezza agli investimenti stranieri – come ha notato Steven Barnett, capo divisione del Fondo monetario internazionale (Fmi) per l'Asia-Pacifico – tanto più veloci saranno queste riforme, tanto più la Cina resterà il player mondiale con cui fare i conti".

 

Di certo non è problema di crescita. Quest'anno il pil cinese secondo il World Economic Outlook del Fmi crescerà del 6,8 per cento, piuttosto l'idea che comunismo e capitalismo potrebbero perfino vivere sulla stessa barca. D'altra parte l'ingresso della Cina nel Wto nel dicembre del 2001, considerato da alcuni come una vera iattura, basta ricordare le tesi di Giulio Tremonti, deve necessariamente portare il paese ad aprirsi in settori chiave "come quello finanziario" ricorda Barnett per permettere alla Cina di aumentare "l'efficienza, far diminuire la corruzione, integrarla nelle reti finanziarie e internazionali, migliorandone le pratiche e l'organizzazione".

 

Riuscirà la Coca-Cola a essere l'apripista di questo scenario? Quest’anno la mitica bottiglia di vetro festeggia cento anni di storia, è il marchio di fabbrica del brand di Atlanta. Coca-Cola aveva fatto un tentativo nel 2010 offrendo 2,3 miliardi di dollari per Huiyuan, colosso di bevande di succhi di frutta. Ma allora il ministero del Tesoro bloccò l'operazione perché avrebbe danneggiato la concorrenza interna. "Cinque anni per i ritmi di crescita e di evoluzione di questo paese sono davvero un'eternità – spiega al Foglio Antonino Laspina, coordinatore degli uffici dell'Istituto per il Commercio Estero in Cina - tra qualche mese verrà lanciato un piano di liberalizzazioni con una nuova normativa sugli investimenti esteri che sostanzialmente aprirà il mercato in settori non strategici, di certo quello alimentare non sarà scudato come quello della sicurezza, dei trasporti e delle telecomunicazioni". Una normativa che dovrebbe anche far cadere il tabù sulla proprietà delle aziende che, ad oggi, vede la maggioranza in mano allo stato asiatico. Una rivoluzione che potrebbe attrarre nuovi investimenti di società straniere anche perché "gli standard di qualità dei prodotti cinesi sono molto migliorati e i cinesi benestanti hanno superato la soglia dei 200 milioni e sono destinati a crescere ancora – dice La Spina – senza dimenticare che queste aziende statali cinesi hanno stabilimenti sparsi un po' ovunque, rilevarli significa crescere non solo in Cina ma anche in altri paesi". Lo sa bene la stessa Coca-Cola che conta 43 stabilimenti sul territorio della Repubblica Popolare e non a caso, lanciando l'offerta d'acquisto, ha parlato "di offrire un’ampia gamma di bevande ai consumatori cinesi e non solo".

 

[**Video_box_2**]È questo lo scenario che il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni si troverà davanti lunedì 27 aprile quando presiederà a Pechino la Commissione mista col suo omologo cinese, Wang Yi. Potrà tirare fuori dal cilindro anche un aneddoto non da poco. Perché prima della Coca Cola a fare shopping in Cina, dieci anni fa, fu l'azienda italiana Industria lombarda liquori vini e affini, l’Illva, ovvero i produttori dell'amaretto di Saronno, che acquistarono il 33 per cento delle azioni di Yantai Changyu, leader nella produzione, vendita e distribuzione di vino e brandy in Cina. Mai investimento fu così proficuo: nonostante la crisi che ha colpito pesantemente il settore, i fatturati dell'industria cinese sono sempre stati in crescendo e hanno anche permesso di salvare certe stagioni non facili per i vini siciliani, Corvo e Salapaurta, di proprietà sempre dell'Illva. Altro che Coca-Cola.