Vladimir Putin (foto LaPresse)

Perché Putin aveva ragione a farsi beffe delle sanzioni

Alberto Brambilla
A dicembre il dimezzamento del prezzo del petrolio, le sanzioni economiche pretese dagli Stati Uniti all’indomani dell’annessione unilaterale della Crimea, e il deprezzamento del rublo stavano mordendo la Russia. A Mosca si temeva una fuga di capitali verso l’estero. Ma le previsioni dei politici e dei media occidentali erano fuori scala.

Roma. A dicembre il dimezzamento del prezzo del petrolio, le sanzioni economiche pretese dagli Stati Uniti all’indomani dell’annessione unilaterale della Crimea, e il repentino deprezzamento del rublo stavano mordendo la Russia. A Mosca si temeva una fuga di capitali verso l’estero, una bank run, e la Banca centrale, dopo una riunione emergenziale la notte del 15 dicembre, aumentò i tassi d’interesse per sostenere il corso della moneta; un colpo di defibrillatore. All’epoca era lecito intuire che l’autocrate Vladimir Putin avrebbe perso mordente, che le sanzioni avrebbero tramortito l’orso russo, come sosteneva il settimanale britannico Economist. Tuttavia le previsioni dei politici e dei media occidentali erano fuori scala. Ai piani alti del Cremlino, infatti, avevano ragione ad affermare che l’economia avrebbe recuperato presto.

 

La Borsa di Mosca è una delle migliori quest’anno. Il rublo, dopo avere perso metà del suo valore nei confronti del dollaro, sta risalendo. I tassi di interesse per i prestiti creditizi retrocedono dai picchi post-sanzioni. E le riserve valutarie sono salite a circa 10 miliardi di euro, vicino ai livelli precrisi. Miglioramenti difficili da prevedere ora elencati dal settimanale Newsweek che guarda all’acciaio per capire il meccanismo sotteso al recupero, ovvero la funzione d'incentivo prodotta dalla svalutazione del rublo che ha aumentato il costo delle importazioni spingendo i consumatori a privilegiare i prodotti domestici più a buon mercato. Per la compagnia siderurgica Sevestal, che esporta il 30 per cento della produzione, ciò ha rappresentato un vantaggio significativo rispetto ai concorrenti stranieri perché ha potuto comprare le materie prime, dai minerali di ferro all’approvvigionamento di elettricità, a un costo relativamente basso in casa.

 

Le sanzioni hanno poi garantito protezione alle aziende russe dai marosi del mercato, agli occhi degli investitori sono percepite come meno vulnerabili rispetto a quelle dei paesi emergenti da un eventuale aumento dei tassi di interesse da parte della Federal reserve americana, fattore che tiene sulle spine banche e investitori che operano in dollari. Ironia delle sorte, aggiunge il Wall Street Journal, siccome le nuove emissioni di obbligazioni societarie sono scarse ma i rendimenti di quelle in circolazione non sono da disdegnare, ciò le rende più attraenti per gli investitori. Putin ora sostiene che il peggio sia alle spalle e che la ripresa richiederà due anni. Le sanzioni dirette sono armi spuntate.

 

[**Video_box_2**]L’Unione europea attraverso la Commissione vuole insidiare il gigante energetico pubblico Gazprom accusandolo di abuso illegale di posizione dominante nel mercato del gas nell’est e sud Europa. Ovvero la differenza di prezzo tra paese a paese sui contratti di fornitura a lungo termine slegati dal prezzo delle materie prime. Il commissario alla concorrenza della Commissione Margrethe Vestager che ha promosso un’indagine formale su Gazprom dalla sua nomina nel novembre scorso è sembrata determinata a insidiare le grandi compagnie, adottando una linea più dura rispetto ai predecessori senza curarsi delle proposte di compromesso giunte sia dall’americana Google sia da Gazprom.

 

Lunedì l’amministratore delegato della Gazprom, Alexei Miller, è andato ad Atene per incontrare il primo ministro greco Alexis Tsipras per discutere di “interessi comuni”. Gazprom in cambio di un patto per estendere la linea del gasdotto Turkish stream – una pipeline dal valore soprattutto politico alternativa al defunto South Stream – potrebbe concedere fino a cinque miliardi di euro alla Grecia, impelagata in farraginose trattative con i partner europei che pretendono un piano credibile di riforme per concedere nuovi prestiti necessari a scongiurare un possibile default.

 

Intanto, la Gran Bretagna continua a fare pressione su Mikhail Maratovich Fridman, banchiere vicino a Putin, affinché venda a terzi i pozzi di idrocarburi comprati dalla tedesca Rwe nel Mare del nord, dove gli operatori hanno risentito il contraccolpo del calo petrolifero. Le autorità britanniche dicono di non volere cedere un asset del genere a un soggetto che rischia di barcollare sotto nuove sanzioni.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.