Così la Cina maschera grandi manovre finanziarie con l'umiltà

Alberto Brambilla
Nella prima intervista senza filtri né revisioni ex post di un giornale occidentale a un membro del governo cinese, Li Keqiang, dice che la Cina “non ha il desiderio di rompere l’attuale ordine mondiale” per crearne uno nuovo a sua immagine. Sarà vero?

Roma. Nella prima intervista senza filtri né revisioni ex post di un giornale occidentale a un membro del governo cinese, Li Keqiang, il primo ministro al timone della seconda più grande economia del mondo, dice che la Cina “non ha il desiderio di rompere l’attuale ordine mondiale” per crearne uno nuovo a sua immagine ma di “lavorare con gli altri per rafforzare il sistema finanziario”.

 

Li, parlando al Financial Times, assegna questa fuzione ausiliaria alla Asian infrastructure investment bank (Aiib), la mega banca d’investimenti rivale della Banca mondiale di stampo americano, alla quale hanno aderito come membri fondatori 57 paesi. L’adesione di storici alleati americani (Gran Bretagna), di stati europei di prima grandezza (Germania, Italia, Francia) e di amici di Wasghington in Asia (Corea del Sud) assegna a Pechino una vittoria diplomatica di rilevanza storica che, secondo alcuni osservatori, conferma l’esigenza di superare la rigidità burocratica delle istituzioni finanziarie globali nate a Bretton Woods. Li, in ogni caso, sottolinea che non c’è la volontà di sconquassare il sistema creato dagli Stati Uniti nel 1944. E a conferma di ciò spiega che la Aiib lavorerà in “parallelo” con la Asian development bank, banca di sviluppo regionale asiatica di conio americano, nata per contenere l’influenza cinese rispetto ai paesi vicini, almeno finora. Gli Stati Uniti sono stati invitati a entrare nella Aiib ma ormai le iscrizioni per essere “membri fondatori” sono chiuse (al massimo sarebbero soci).

 

La stessa prudenza di Li, un esercizio di autocontrollo per cui non si eccede nel vantarsi ma si esaltano i doverosi aggiustamenti da apportare all’economia domestica alle prese con un rallentamento più pronunciato del previsto, si ritrova nei manager della Bank of China, la più antica e la più ramificata (41 paesi) banca commerciale cinese, giunti ieri a Roma per illustrare agli imprenditori l’architettura internazionale in fieri del renminbi, la moneta cinese, che vuole diventare globale (“going global” è lo slogan dell’evento organizzato ieri dalla Fondazione Italia Cina). Il capo economista di Bank of China, Cao Yuanzheng, già economista in forze alla Banca mondiale, non nega che grazie al successo della Aiib e all’istituzione del fondo Silk Road, per costruire grandi infrastrutture euroasiatiche, “la proiezione internazionale della valuta cinese sarà facilitata”. Ma il passo è lungo per dire che diventerà presto una valuta di rango mondiale da moneta usata oggi soprattutto per gli scambi commerciali bilaterali tra paesi, operazioni transnazionali con investitori qualificati e banche centrali che hanno accordi di swap (Banca centrale europea compresa). Cao non ha intenzione di fare apparire la pur significativa diffusione del renminbi dal 2009 – fino a marzo era la quinta valuta più usata per effettuare pagamenti, ora la settima – un grimaldello capace di sfidare l’egemonia del dollaro. “L’internazionalizzazione del renminbi è stata piuttosto una scelta passiva [accentuata dalla crisi finanziaria] che ha generato una serie di sfide più che dei benefici immediati per la Cina – ripete Cao – Per ora è uno strumento di sviluppo per l’economia ma non può ambire al ruolo di valuta globale, come il dollaro, perché se la le istituzioni monetarie cinesi volessero prendersi questa responsabilità, come la Fed, ci sarebbero dei rischi”.

 

Cao conferma le aperture del Fondo monetario dicendo che “entro la fine anno il renminbi sarà forse ammesso” nel paniere delle principali valute. Ma per la sua piena convertibilità Cao richiama alla necessità di ridurre le esportazioni a favore delle importazioni e sviluppare i mercati finanziari. Rafforzare l’integrazione tra la Borsa di Shanghai e quella di Hong Kong, entrambe cariche di liquidità quanto e più di quelle occidentali, è una lunga marcia verso una governance affidabile per gli operatori esteri e per i risparmiatori cinesi in fuga dalla finanza ombra e da altre opacità figlie dalla corruzione. Da qui passa la realizzazione del “Chinese dream”, il nuovo sogno cinese, la transizione verso un’economia domestica con al centro la finanza. Shanghai e Hong Kong sono le fucine del renimnbi accumulato nelle piazze off-shore, anche europee (Germania, Francia e Lussemburgo), e scambiato nelle camere di compensazione (clearing houses) in altri quattordici snodi. Un’architettura in cui Bank of China fa da perno tramite le sue filiali. O, per dirla con la rivelatrice metafora usata dai due giovani manager Teng Linhui (trade services) e Wang Hanbin (clearing department), Bank of China è la “chiave” per fare del renmnbi la strada che porterà il mondo in Cina. Forse non vedono l’ora di cambiare l’ordine delle cose. Certo è, come ha detto l’ex ministro Paolo Savona, intervenuto al convegno, resta da vedere se riprodurranno un’egemonia monopolistica o se sarà temperata secondo esigenze altrui.

 

 

Con queste immagini si è chiusa la presentazione della giovane manager Teng Linhui (deputy manager del global trade department di Bank of China). Nella prima a destra il simbolo del renminbi o yuan (¥) è combinato con il logo della Bank of China per formare una chiave. Nella seconda i simboli dello yuan sono modificati e combinati per formare l'ideogramma che significa "futuro". Nell'ultima, la sintesi del percorso concettuale: i servizi in renminbi della Bank of China, la chiave per il futuro.

Di più su questi argomenti:
  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.