Maurizio Landini (foto LaPresse)

Sindacato che perde la rotta

La sfida marchionnesca di Fincantieri a Landini (che Fiom vuol perdere)

Alberto Brambilla
Lo sciopero politico-oltranzista nei cantieri navali contro il nuovo contratto pro flessibilità spaventa i committenti esteri

Roma. Nel prospetto informativo per la quotazione di Fincantieri, avvenuta nel luglio scorso con una tiepida accoglienza degli investitori, non era inclusa la voce “Maurizio Landini” tra i fattori di rischio per l’operatività della prima compagnia italiana di cantieristica navale. Urge forse una rettifica alla luce degli scioperi nelle ultime settimane dei metalmeccanici della Fiom, capitanati da Landini, che spingeranno l’armatore francese Ponant a trasferire la ristrutturazione di una nave dal “non affidabile” cantiere di Palermo a quello di Malta. Fiom contesta la proposta di revisione del contratto offerta dall’amministratore delegato Giuseppe Bono che intende riorganizzare la forza lavoro per soddisfare le commesse accordate da armatori stranieri derogando ad alcuni paletti previsti nel contratto collettivo nazionale, considerati ormai desueti rispetto alla concorrenza del mercato imposta dai ritmi della Borsa. Alcuni punti: flessibilità degli orari di lavoro, premi di produzione legati all’utile e non più su base arbitraria, riduzione dei subappalti interni con affidamento ad agenzie del lavoro terze e soprattutto l’esigibilità degli accordi siglati tra azienda e sindacati per evitare di veder piovere cause legali una volta ottenuta la maggioranza dei consensi degli operai. Richieste non troppo distanti e per certi versi coincidenti con quelle avanzate dalla Fiat di Sergio Marchionne a Pomigliano nel 2011. Per Fincantieri, come ricordato ieri dal Messaggero, significherebbe anche divincolarsi dal ricatto di quei lavoratori che spesso incrociano le braccia alla vigilia di consegne cruciali al fine di spingere l’azienda a cedere su particolari richieste pur di non pagare penali. elevate.

 

Il modello di riferimento di Fincantieri per la riorganizzazione degli addetti s’avvicina all’esperienza di uno dei principali concorrenti tedeschi, la Meyer Werft che applica contratti simili a quelli in discussione in Italia da due anni circa. Meyer Werft, ad esempio, ha varato un programma di riduzione dei costi da 50 milioni circa volto a recuperare la competitività in accordo con il comitato dei lavoratori e il sindacato IgMetall. Fincantieri e Mayer hanno anche altro in comune: si sono appena aggiudicate “la più significativa serie di nuove commesse nella storia dell’industria crocieristica” (secondo il sito specializzato Ship2Shore) per costruire rispettivamente cinque e quattro navi da crociera per l’americana Carnival entro il 2019-2022. L’affidabilità, ovvio, ha un certo rilievo ai fini della consegna. Tuttavia Landini pare curarsi poco del contesto internazionale – o del fatto che Fincantieri è in lizza anche per l’acquisizione del cantiere francese a Saint-Nazaire – e preferisce occuparsi del suo progetto di apprendistato pre-elettorale, “Unions”, sfruttando mediaticamente le vertenze. La manifestazione di debutto del 28 marzo a piazza del Popolo aveva in testa i fiommini di Fincantieri e il collegamento di martedì con il talk-show “Ballarò” era in diretta dai cantieri di Ancona.

 

[**Video_box_2**]La Fiom di Landini sta perdendo consensi nelle fabbriche (meno 11 mila iscritti dal 2010 al 2013, in calo di alcune migliaia anche l’anno passato) ma in Fincantieri, uno storico feudo, conserva una certa forza d’interposizione (1.880 iscritti, perlopiù impiegati e quadri, contro i 1.818 di Fim-Cisl e Uilm-Uil unite) pur avendo perso la maggioranza dei delegati sindacali (41 Rsu contro 56 delle altre due sigle insieme). L’intesa cordiale tra Fiom e la dirigenza e soprattutto con l’ad Bono è anch’essa un ricordo se il capo dei metalmeccanici intende insidiare il governo Renzi (con quali risultati?) dall’esterno del Parlamento. “Ognuno deve fare il proprio mestiere e noi abbiamo bisogno del sindacato ma di un sindacato moderno che capisca che viviamo in un mondo che non è più quello dell’Ottocento o dei primi del Novecento – ha detto l’amministratore delegato minacciando a mo’ di provocazione di “andare da un’altra parte”, ovvero all’estero – Una società come la nostra ha bisogno che tutti pensino che non c’è un altro che risolve i problemi. Ognuno di noi – e qui Bono si fa Kennedy – deve pensare a ciò che può fare per il paese non a quello che fa il paese. Il paese siamo noi, non Renzi”. Le baruffe giù dalla nave.

 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.