Una piattaforma israeliana

I giacimenti della “pace” annacquati da baruffe legali e fughe degli investitori (e la exit strategy italiana)

Gabriele Moccia
Qualche settimana fa, l’americana Noble e l’israeliana Delek – che sono le prime e sostanzialmente le uniche ad avere creduto e portato avanti i lavori sulle riserve – si sono stufate e hanno fatto causa al governo di Tel Aviv, chiedendo indietro 15 milioni di dollari royalties pagate e non dovute.
Nel 2013, quando le squadre della Noble Energy cominciarono a pompare fuori i primi metri cubici di gas dalla placca mesozoica del giacimento di Tamar, di fronte alle coste tra Israele e il Libano, il premier israeliano Benjamin Netanyahu parlò enfaticamente di un “dono della natura” capace di risollevare le sorti dell’affannata economia di Tel Aviv. Altri, analisti e politici, si spinsero addirittura a tracciare l’idea di un gasdotto della pace, in grado di sciogliere i nodi del conflitto israelo-palestinese, o gli attriti con il Libano, davanti a prospettive comuni di sviluppo. Più soldi per tutti insomma.

 

Oggi, se è pur vero che il gas di Tamar arriva alle città israeliane – anche grazie ad una complicata rete di gasdotti, il cui costo di costruzione è peraltro lievitato negli anni, che hanno come entry point il porto di Ashdod – i giacimenti levantini (oltre a Tamar, c’è quello, sulla carta più grande, di Leviatano) più che pace, sino ad ora hanno portato solo a baruffe e battaglie legali tra lo stato e i privati. Netanyahu e il suo braccio destro in questo campo, l’attivissimo ministro dell’energia, Silvan Shalom, si sono infatti messi in testa di spremere tutte le società coinvolte nelle estrazioni dei giacimenti, caricandole di royalties e altri oneri. Qualche settimana fa, l’americana Noble e l’israeliana Delek – che sono le prime e sostanzialmente le uniche ad avere creduto e portato avanti i lavori sulle riserve – si sono stufate e hanno fatto causa al governo di Tel Aviv, chiedendo indietro 15 milioni di dollari royalties pagate e non dovute. La palla è ora passata ai tribunali. Del resto, quello delle royalties sembra essere un vero e proprio pallino per il ministro Shalom.

 

L’intenzione dichiarata pubblicamente è quella di portare le entrate da royalties dal miliardo di dollari circa raccolto nel 2014, a 6 miliardi nel 2020. Una strategia che non sembra troppo vincente. Nella guidance del 2015, la Noble, a causa del crollo dei prezzi del petrolio, ha dovuto tagliare del 40 per cento gli investimenti globali e sarà costretta a tornare nuovamente sul mercato per cedere quote ai fini della riduzione del debito – pesa molto l’operazione Marcellus shale nel Golfo del Messico –  che è passato da 4 a 6 milioni di dollari nel 2014. Impossibile, dunque, mantenere le attività in Israele a fronte di una posizione così rigida del suo governo, ha fatto capire il ceo di Noble, David Stover. Da qui la rottura. Shalom si è affrettato ad indire nuovi bandi per continuare lo sviluppo delle riserve, quelle di Leviatano in primis. Ma non sarà facile.

 

I lavori sul giacimento proseguono a rilento: sul pozzo 1 le perforazioni sono state interrotte perché a 6 mila metri di profondità la pressione era troppo elevata, i primi pompaggi dovevano partire nel 2016, ma sono stati prima spostati al 2017 e infine al 2018. Insomma, bisogna ricominciare da capo e non sono molte le società che hanno come core business i pozzi ad altra profondità come la Noble.  Chi investirà in un progetto così complesso, senza adeguate garanzie di remunerazione e con il fiato sul collo dei diritti di estrazione?  C’è  poi il tema dei collegamenti. Se mai si riuscirà a portare a regime anche Leviatano (secondo lo Us Geological Survey stiamo parlando di 1,7 miliardi di barili di petrolio e 122 trilioni di piedi cubici di gas ma è difficile trovare conferme certe sui numeri che vedono gli analisti in disaccordo) la domanda interna sarà ampiamente soddisfatta e Israele dovrà vedere come collegare le sue riserve agli hub internazionali per cercare di vendere qualcosa.

 

[**Video_box_2**]Un tema affrontato di recente dallo stesso Shalom anche a Roma con il ministro dello Sviluppo economico italiano Federica Guidi. Una delle proposte possibili sarebbe quella di allacciare il gas prodotto in Israele al Tap. Staremo a vedere. Non mancano poi le polemiche interne. Stanley Fischer, ex governatore della Banca centrale israeliana, ha parlato del rischio di una “malattia olandese” per il paese, ovvero un apprezzamento così forte dello sheqel israeliano a causa dei ricavi del gas, tale da danneggiare tutte le altre voci dell’export. Un disastro in termini di competitività. Per evitare questo scenario, Fischer ha suggerito una soluzione di tipo norvegese, ovvero la costituzione di un fondo sovrano che investa in attività e sostenga l’economia israeliana con i soldi del gas prodotto.

 

Intanto, con la Noble alla porta, anche la società israeliana Delek è in difficoltà e ha già annunciato una serie di ingenti licenziamenti ed è stata costretta a posticipare il listing alla borsa di Londra. Una delle prime gatte da pelare sull'agenda economica del nuovo governo uscito dalle elezioni di marzo. Nel frattempo, tra i corridoi di Foggy Bottom serpeggia una voce. Tra le tante questioni sul tavolo, causa dei rapporti ormai tesi tra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e Bibi Netanyahu, sarebbe anche il trattamento riservato alla Noble, che in Colorado lo scorso anno ha ampiamente sostenuto proprio il Partito democratico.

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