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Massimo sussidio

Francesco Forte
Cosa siete disposti a perdere per il reddito minimo? Proposte a confronto, costi e conseguenze

Al Senato ci sono due proposte simili sul reddito minimo garantito, entrambe con effetti economici negativi e  prive di accettabilità in Europa. Quella del Movimento 5 stelle riguarda 9 milioni di cittadini e semi-cittadini e comporta un costo annuo (sottostimato) di 17 miliardi, pari allo 1,1 per cento del pil. Il reddito di cittadinanza spetta a chi sia al di sotto del 60 per cento del reddito mediano nazionale pro capite. L’importo massimo è di 780 euro mensili a persona, ossia 9.360 euro all’anno per chi ha reddito zero, con diminuzione man mano che il reddito sale sopra zero. Ne avrebbero diritto tutti quelli che hanno almeno 18 anni, che si trovano in Italia con cittadinanza italiana o nell’Unione europea e gli stranieri provenienti da paesi che hanno sottoscritto accordi di reciprocità sulla previdenza sociale, per il nucleo familiare. In teoria questo sussidio statale può arrivare a 46.800 euro annui per una famiglia di cinque persone. La copertura del costo annuo verrebbe effettuata per 1,2 miliardi con l’aumento delle imposte sulle imprese del petrolio e del gas; per 1,4 miliardi con taglio dei costi della Pubblica amministrazione e della politica; 4,5 miliardi sarebbero tratti dal risparmio delle spese per l’acquisto dei beni della Pa. Da 2 a 4 miliardi si otterrebbero con un’imposta sulle grandi ricchezze; 740 milioni col taglio delle pensioni d’oro; 3,5 col taglio delle spese militari; 600 milioni verrebbero presi dalla quota 8 per mille; 580 con a riduzione degli sgravi fiscali per banche e assicurazioni.

 

Una lista improbabile e con la solita retorica populista. E’ chiaro che gli immigrati verrebbero a torme in Italia, per godersi questo reddito. Aumenterebbero il lavoro nero e l’evasione fiscale. Il costo del nuovo sussidio sociale crescerebbe ben oltre i 17 miliardi annui. La proposta di Sel è migliore: il reddito minimo spetterebbe solo a soggetti disoccupati, precariamente occupati o in cerca di prima occupazione. Sarebbe pari a 600 euro mensili, oltre a integrazioni in beni e servizi a carico delle regioni. Il beneficiario del reddito minimo garantito sarebbe tenuto ad accettare eventuali proposte di impiego, purché le stesse siano effettivamente compatibili con la carriera lavorativa pregressa del soggetto e con le competenze, formali o informali, in suo possesso. I costi sarebbero minori. Ma gli effetti perversi sarebbero analoghi a quelli della proposta grillina. Uno schema del genere inviterebbe a non studiare, a non apprendere un mestiere, a non darsi da fare per cercarlo, a non risparmiare.

 

[**Video_box_2**] I greci di Tsipras, scavalcato a sinistra, chiederebbero subito di imitarci. I cancellieri tedeschi Angela Merkel e Gerhard Schröder, che hanno imposto ai cittadini la riduzione delle indennità di disoccupazione prolungata e l’hanno tolta per chi rifiuta i corsi di riqualificazione e non accetta per due volte un posto di lavoro poco pagato o considerato scomodo, affermerebbero che essa contrasta con le riforme richieste per la crescita. Lo schema del salario minimo, che la Germania adotta, in effetti, ha un indirizzo del tutto opposto. Una volta liberalizzato il mercato del lavoro, con la facoltà di fare contratti locali e individuali diversi da quelli collettivi nazionali, sorge la necessità di stabilire che i contratti debbono rispettare princìpi di non sfruttamento. Quindi si fissa per legge una paga minima per ora lavorata, che tiene conto anche del tipo di lavoro, ma consente salari diversificati secondo il merito. Il Jobs Act, che prevede il diritto di licenziare ha bisogno di un altro schema fondamentale, quello dei corsi di riqualificazione e delle agenzie di ricollocamento. La cassa integrazione straordinaria viene sostituita da un indennizzo di disoccupazione così finalizzato. Questo sì è il modello danese, accolto in Germania.